di Sofia Perissinotto
Laura Pugno nasce come poeta, ma nasce anche a Roma, dove vive, nel 1970.
Approda poi alla narrativa e infine alla saggistica; il suo ultimo lavoro, Noi senza mondo, edito da Marsilio (2024), è un testo compost, un testo che «eccede, che la eccede».
Laura Pugno è autrice dei sentieri più selvaggi, quelli che lasciano il sentiero sicuro, già tracciato, per addentrarsi: basti pensare al suo esordio narrativo, Sirene, a La ragazza selvaggia, o al saggio In territorio selvaggio. La sua produzione esplora l’ibrido, il limite, la soglia e lo fa muovendosi nei generi, sconfinandoli.
Una voce, dunque, fortemente voluta in un’edizione come le presente, dedicata al pensiero non conformista e all’ibridazione.
Ha risposto, per noi, ad alcune domande.
In che modo il selvaggio attraversa il suo lavoro? Quali sono i sentieri selvaggi che percorre o ha percorso nella sua produzione?
Il sentiero più selvaggio che ho sicuramente percorso è quello della poesia. Però devo dire che, nella mia vita, la riflessione sul tema è iniziata prima nella narrativa: è stata esposta con forza nel momento in cui ho scritto Sirene, un libro che si è quasi scritto attraverso di me. Solo successivamente, in una fase più tarda della mia scrittura, e anche sulla base di suggestioni editoriali, ho iniziato una riflessione di tipo saggistico. Una saggistica molto personale, non accademica, aperta con In territorio selvaggio, che poi ha preso vita con Noi senza mondo, un saggio-romanzo e un romanzo-saggio che attraversa continuamente la frontiera (o potremmo dire la dogana, visto che siamo a Chiasso) proprio perché attinge a correnti sottostanti, carsiche.
Sicuramente, per me, la poesia è la matrice del mio lavoro, nel senso che le prime inquietudini, le prime avvisaglie, le immagini che appaiono in poesia vengono lì declinate nella forma più intensa, per poi riapparire nella prosa e nella saggistica.
Ci sono filoni sotterranei che collegano questi mondi; è stata molto frequente, nella mia esperienza, la scrittura in contemporanea o a breve distanza di prosa e poesia. È successo, per esempio, con Sirene e Il colore oro, La mente paesaggio e Antartide, I nomi e Noi senza mondo. Questo non perché si parli materialmente della stessa cosa, ma perché c’è un territorio unitario – questo territorio selvaggio – che in qualche modo raggiungiamo quando andiamo a caccia di storie.
Quali sono gli elementi che porta con sé nei suoi lavori, che l’accompagnano sia nella poesia che nella prosa?
Sicuramente ogni scrittore e scrittrice lavora intorno a un nucleo di ossessioni. Ossessioni che diventano sempre più coscienti e poi in qualche modo scompaiono di nuovo nell’oscurità necessaria, l’oscurità fertile, da cui poi si ritorna alla scrittura, che è un percorso di collaborazione tra il conscio e l’inconscio, il corpo e tutti i nostri vari tipi di cervelli, che siano centralizzati o disseminati in noi.
Ecco, oggi guardando indietro rispetto al percorso di anni, vedo che in qualche modo l’ibrido, il confine di specie, l’umano nei suoi vari confini, quello tra la vita e la morte, tra la parola e il silenzio, tra l’umano e il non umano, è sicuramente una dimensione che io attraverso costantemente.
Poi le radici, le origini di queste ossessioni sono qualcosa che contemporaneamente ha senso e non ha senso indagare per chi scrive, proprio perché c’è una misura di mistero che rimane inconoscibile.
All’inizio della parte più strettamente saggistica di Noi senza mondo c’è una citazione dal saggio L’impensato. Teoria della cognizione naturale di N. Katherine Hayles (effequ)
[apre il libro e legge]
«Il potere della scatola nera non risiede nel fatto che nasconda una risposta conoscibile, ma nel fatto che simboleggia i limiti della conoscenza.
La scatola nera non può essere aperta perché in quanto unità indivisibile e misteriosa indica l’inconoscibile in sé».
Ecco questi confini sono confini che noi possiamo cercare di attraversare: la poesia e la letteratura fanno una sorta di contrabbando con l’inconoscibile, riportando dei tesori, dei bottini fatti di parole al nostro mondo di luce.
Perché scrive e per chi scrive?
Mi piace pensare di scrivere per le lettrici e i lettori del presente, ma anche del futuro. Noi stessi siamo le lettrici e i lettori del futuro rispetto ai nostri classici. Questo non per paragonarsi ai nomi più grandi, ma perché se si desidera – e ogni scrittore e scrittrice lo desidera – durare nel tempo, è necessario pensare che le nostre parole non siano solo legate al qui e ora, ma possano proiettarsi avanti.
Sul perché scrivo una bellissima risposta è già stata data:
Scrivo perché non posso farne a meno, perché questo mi costituisce.
Invece alla domanda sul fine rispondiamo a partire dalla causa.
Ho iniziato a leggere da piccolissima, avevo tre anni, e non ho memoria di una me che non legge. Questa me che non legge è stata anche sempre una me che scrive. Quindi, in qualche modo, la scrittura era la mia vocazione naturale, era ciò che mi riusciva con maggior facilità. Tutto il resto è stato apprendimento, addestramento e qualche volta combattimento.
Io torno alla scrittura come si torna a casa.