di Elisabeth Sassi
Bessora è nata a Bruxelles nel 1968. Nell’anno in cui nasceva, sul podio olimpico a Città del Messico, si levavano al cielo i pugni chiusi guantati di nero dei velocisti e militanti del movimento nero. Bessora nasceva in un anno di lotte, caratterizzato da contestazioni, rivendicazioni e nuove libertà. Figlia di madre svizzera e padre gabonese, Bessora è cresciuta in Europa, negli Stati Uniti e in Africa. Come le autrici e gli autori della sua generazione è certamente figlia di quelle lotte; tuttavia, l’opera di Bessora esula da facili suddivisioni dicotomiche che dividono il mondo in buoni o cattivi. Avendo vissuto in contesti culturali e letterari diversi tra loro, la sua scrittura rispecchia visioni sfaccettate e plurali della realtà.
Domenica 5 maggio, durante l’ultimo pomeriggio di festival, Bessora, in dialogo con Prisca Agustoni, presenta “Vous, les ancêtres”, vincitore del Premio svizzero di letteratura 2024. Il romanzo è una saga familiare che si dipana lungo generazioni fino ad arrivare alle nipoti di Jane, che è la protagonista. Siamo nel 1684, in Cornovaglia. Jane, quand’era ancora neonata, viene abbandonata dalla madre che costruisce per lei una culla, una barchetta, per poi affidarla alle acque del fiume. L’unica eredità di Jane è il bulbo di narciso che la madre le semina nel cuore. La neonata, dopo un primo viaggio iniziatico, verrà raccolta da una signora che la crescerà, ma una volta adolescente, Jane verrà spedita in America perché accusata di un piccolo furto. Proprio durante il suo processo, lei ruberà la Bibbia al giudice e questo testo l’accompagnerà durante la lunga navigazione fino al Maryland, dove sarà comprata come schiava bianca per lavorare nei campi di caffè.
Di seguito vi proponiamo un estratto dell’incontro avvenuto tra Bessora e Prisca Agustoni, che comincia proprio con questa domanda:
Per cominciare, chi è o che cos’è nel tuo romanzo il selvaggio o il paradigma del selvaggio?
Questo romanzo sviluppa diversi temi, soprattutto i rapporti di dominazione, che possono essere quelli di schiavitù, di sfruttamento economico e anche sessuale. Tutti i personaggi che rientrano in queste dominazioni, quindi, sono percepiti da chi domina come “selvaggi”. Ma per me il ruolo di dominatore e dominato non è definitivo, quello che ho cercato di far capire è che si può passare da un ruolo all’altro. Per quanto riguarda Jane lei è nata, se così vogliamo dire, dal lato sbagliato della strada. Perché Jane è zoppa, viene deportata negli Stati Uniti, finisce a lavorare in una piantagione, cosa che allora vedeva gli schiavi bianchi affiancati ai neri. Queste persone erano tutte dominate, sia bianche che nere. Jane non ha ambizioni particolari, non vuole emanciparsi, non ha sete di libertà. Vive giorno per giorno. Però a un certo punto si rende conto che può prendere in mano il suo destino e che quindi può passare dal ruolo di dominata a quello di dominante.
Jane, in un certo senso, sfugge un po’ alle aspettative della storia ufficiale. La protagonista è una schiava bianca che a sua volta si emancipa e si libera dalla schiavitù, per poi acquistare della terra e degli schiavi. Quindi questo rapporto di dominazione del quale tu ci parlavi poco fa in effetti lo si vede nella sua risposta, cioè: la liberazione si dà attraverso una nuova dominazione.
Se noi analizziamo il passato con gli occhi di oggi ci si dimentica spesso che nelle piantagioni degli Stati Uniti gli schiavi bianchi erano affiancati, almeno nel XVII secolo, ai neri. E avevano le stesse condizioni sociali di questi schiavi neri, al punto che ci furono delle rivolte dove schiavi bianchi e schiavi neri si allearono tra loro contro i padroni, naturalmente bianchi. Una di queste rivolte, tra le più famose, è quella di Nathaniel [Bacon’s Rebellion, Virginia 1676-1677] e Jane arriva negli Stati Uniti subito dopo questa rivolta dopo la quale vennero accordati dei privilegi agli schiavi bianchi; dovevano per esempio servire per un certo periodo e poi potevano essere liberati. Jane, infatti, deve servire per sette anni dopodiché viene liberata e appunto perché bianca riceve un piccolo capitale che le permette di acquistarsi della terra e uno schiavo, però lei non ha interiorizzato questo suo cambiamento di status e infatti si innamora di questo schiavo nero proprio perché lei non lo sente come inferiore a sé stessa. In quel periodo succedeva di frequente che donne inglesi, ex-schiave, una volta liberate sposassero degli schiavi neri, tant’è che il Maryland aveva emanato una legge per vietare questi matrimoni. Ma a Jane non importa essere fuorilegge, lei prosegue sempre per la sua strada.
La letteratura scritta da autori e autrici nere genera delle attese da parte dei lettori sia a livello tematico, che di questioni identitarie. Ma i personaggi che scegli di descrivere, non solo in questo romanzo, ma anche in altri romanzi precedenti, fuggono questa dicotomia, provocano un capovolgimento dei ruoli perché proponi una letteratura e dei personaggi che non danno quello che a prima vista ci si potrebbe aspettare. Come ti muovi in queste realtà e come affronti questo tipo di attese, anche editoriali?
Nel mondo letterario si ha questa tendenza a incasellare le persone in base alle identità presunte, soprattutto identità etniche. E questo può funzionare in un regime come era quello dell’Apartheid del Sudafrica, dove la gente viveva appunto segregata separata a seconda dell’etnia. Ma le democrazie funzionano in un altro modo e quindi non c’è nessun motivo perché la cultura crei questi schemi fissi, anzi sarebbe come discriminare le persone, segregarle, fare dell’apartheid. Io non faccio autobiografia, quando scrivo non parlo della mia vita. Mi interessano degli argomenti, dei personaggi, come è il caso de “Les orphelins”, che parla di due bambini orfani tedeschi, che dopo la Seconda guerra mondiale vengono adottati in Sudafrica. È una storia che ho scoperto per caso, una storia vera di cui mi sono innamorata. Il bambino orfano tedesco ormai è una persona anziana, sono andata a trovarlo in Sudafrica e sulla copertina del romanzo c’è proprio la fotografia di questi due bambini bianchi. A volte, quando ci sono degli incontri letterari come questo, mi si chiede se è legittimo che sulla copertina ci sia questa foto. Se è legittimo che io parli di questi argomenti, che sarebbe come dire che mia mamma, che è bianca, non è legittimata a essere mia mamma fino in fondo. Questo libro è stato tradotto in Brasile e ha funzionato benissimo proprio perché è uscito da questi schemi; è stato tradotto anche in Germania, pubblicato da un piccolo editore specializzato in letteratura africana, dove però i lettori di questa casa editrice si aspettano che i loro libri parlino di neri e che siano scritti da neri… vi lascio dunque immaginare lo scompiglio… dato che sulla copertina apparivano appunto due bambini bianchi e per di più io sono una donna né nera né bianca…
L’incontro tra Bessora e Prisca Agustoni ci riporta ad altre affermazioni che abbiamo ascoltato durante questi giorni di festival. Ricordo, durante l’inaugurazione, quando Javier Cercas diceva che per lui la letteratura non è pedagogica: non si scrivono romanzi per insegnare qualcosa, ma per creare altri mondi possibili – distopici, realistici, scomodi. Oppure sabato, quando Laura Pugno ci diceva: la letteratura è quella eterna richiesta, quell’eterno scavo verso l’infinito e il finito. E seguendo questa scia, Bessora ha certamente seminato un bulbo di narciso nei nostri cuori.
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Buone letture e all’anno prossimo!