In dialogo con Federica Manzon

di Giuditta Wiesendanger

Nata a Pordenone, Federica Manzon esordisce nel 2008 con Come si dice addio (Mondadori). Dopo Di fama e di sventura (Mondadori), selezionato al Premio Campiello 2011, e La nostalgia degli altri (Feltrinelli, 2017), Alma (Feltrinelli, 2024) rappresenta oggi il punto più alto della sua scrittura: un romanzo intenso, stratificato, che abbraccia mezzo secolo di storia e identità in bilico.

Alma, la protagonista, attraversa cinquant’anni di storia. Figlia di un padre slavo, collaboratore di Tito, e di una madre triestina austro-ungarica, Alma nasce dalla fusione di due culture. Giornalista, cresciuta tra Trieste e “di là” – l’altra parte del confine – cerca per tutta la vita un senso di appartenenza. Quando riceve notizia dell’eredità paterna, torna alle isole Brioni e inizia un viaggio nella memoria, affiancata da Vili, giovane esule cresciuto con lei. 

Cosa significa oggi, per una classe di studenti liceali, confrontarsi con un evento storico tanto complesso quanto vicino, come la guerra nella ex-Jugoslavia? E cosa può offrire un romanzo, come Alma di Federica Manzon, per aprire spazi di conoscenza, interrogazione e ascolto?

Tutto è partito da una domanda, “Cerco un paese innocente”, che dà il tono alla ricerca della protagonista di Alma e, in qualche modo, ha guidato anche il percorso degli allievi e delle allieve di terza liceo dell’opzione complementare Storia delle culture del Liceo di Lugano 1 accompagnati da Massimo Gezzi. Un cammino impegnativo, perché lo sfondo del romanzo – un conflitto oscuro e tragico come quello balcanico degli anni ’90 – è lontano nel tempo, nello spazio, nella comprensione.

Tra la scelta del libro per votazione democratica e l’incontro sul palco di ChiassoLetteraria c’è stato tanto studio dell’opera (e non solo). Allievi e allieve infatti hanno dedicato diverse lezioni alla lettura e all’analisi di Alma. Il contesto del romanzo è la guerra nella ex-Jugoslavia, un conflitto devastante e articolato che ha segnato il destino di intere generazioni. Per ragazze e ragazzi di terza liceo, questa guerra è lontana per età e geografia: non ne hanno esperienza diretta, e spesso nemmeno indiretta. È stato necessario un grande sforzo da parte loro per capire, imparare e interrogare.

Eppure, proprio quella fatica è diventata presto un’urgenza. Come racconta il docente Massimo Gezzi, “il percorso è partito in salita”, ma presto qualcosa è cambiato. Gli allievi e le allieve si sono lasciati coinvolgere dalla narrazione e hanno cominciato a porre domande, a leggere in profondità, a cogliere sfumature. “A tratti – aggiunge Gezzi – ho avuto l’impressione, poi confermata, che avessero colto più di quello che avevo colto io.”

A Alma si è arrivati con una votazione democratica tra diversi titoli. Ma Hugo, uno degli studenti, ha ammesso con un sorriso di aver provato a pilotare quella scelta: ci teneva davvero a leggere quel libro. E forse non a caso: Alma parla di identità, di confini, di ciò che resta e di ciò che si perde, e lo fa in un modo che interroga anche chi è nato molto dopo quella guerra.

Federica Manzon, ospite dell’incontro conclusivo del percorso alla rassegna ChiassoLetteraria, ha dichiarato di aver apprezzato le domande della classe più di molte ricevute da giornalisti professionisti. Un riconoscimento importante, che dice qualcosa sul valore che può assumere la letteratura, e più in generale la cultura, se accolta e rilanciata da una scuola viva, curiosa e aperta.

Lo sfondo-protagonista: il conflitto nei Balcani

Lo stesso sforzo fatto dalla classe, pur partendo avvantaggiata, lo ha fatto anche Federica Manzon. Anche lei ha studiato. Certo, la guerra nei Balcani non le era del tutto estranea, ma non per questo è stata semplice da comprendere o raccontare. Il luogo in cui si è svolto il conflitto le era familiare, lo conosceva e in parte lo aveva vissuto. La sua esperienza si radica nella memoria visiva e quotidiana di quegli anni: i profughi che arrivavano oltre confine, portando con sé storie interrotte, e gli aerei americani che sorvolavano il cielo diretti a bombardare Belgrado. Federica Manzon non ha vissuto la guerra in prima persona ma ha colto la sua eco. Tuttavia, prima di poterla trasformare in letteratura, è dovuta entrare in quella complessità.

Storia, geografia, identità

La lettura attenta degli allievi e delle allieve, di cui Federica Manzon è rimasta molto colpita, ha portato elementi dal ruolo apparentemente secondario in primo piano. Presto è arrivata un’osservazione puntuale da un’allieva: Trieste non viene mai nominata esplicitamente nel romanzo, però è ovunque. “Non volevo che si pensasse a una città precisa. Trieste è un punto di vista, un confine tra l’occidente comodo e l’est inquieto” racconta l’autrice. Trieste è una città di confine, confine che ritorna spesso in forma di cultura, geografica e mentale. La geografia di Manzon non si ferma al confine. Si sposta e si rivela mezzo per capire cosa sia la familiarità solo una volta che ci si allontana. Manzon racconta che solo dal momento in cui si è allontanata dal Nordest dell’Italia ha capito cosa significasse appartenere a quei territori. 

“Pur non parlando una lingua balcanica in metro a Milano ogni tanto le sentivo e le riconoscevo, ed era un suono familiare.”

Oltre alla geografia, che permette agli individui di costruire la propria identità, spesso a partire dal confronto con qualcosa o qualcuno di “altro”, c’è anche la storia. Geografia e storia nel libro sono rappresentati rispettivamente dal padre e dal nonno di Alma. Geografia e storia sono anche due forze che attirano Alma mentre è alla ricerca della sua identità.

Il nonno materno è figlio dell’Impero austro-ungarico, di una Trieste mitteleuropea colta, ordinata e nostalgica, dove il passato è vissuto come un’epoca d’oro. La sua identità è legata a un mondo scomparso, fatto di confini stabili, lingue raffinate, gerarchie chiare. Guarda a quel passato come a un tempo in cui si era qualcuno, in cui le appartenenze davano senso alla vita. Per lui, la storia è una radice nobile, un’eredità da preservare, una forma di resistenza contro la dissoluzione dell’identità moderna.

Il padre, al contrario, è segnato dalla storia recente e drammatica della guerra nei Balcani. Cresciuto nell’ex Jugoslavia come collaboratore di Tito, ha visto il sogno jugoslavo frantumarsi nel sangue e nei nazionalismi. Ha attraversato la guerra, l’esilio, la frantumazione del suo Paese. Sa che il passato può esplodere, dividere, ferire. Per questo non lo idealizza: lo teme. Vuole che Alma si emancipi da quel peso, che non rimanga prigioniera di ferite ereditate, che impari a lasciar andare. Per lui, l’identità non è qualcosa da proteggere nel ricordo, ma da reinventare nel movimento.

Attraversare la geografia

Alla domanda “Lei a quale sente di essere più legata, alla geografia o alla storia?”, Federica Manzon risponde: “la geografia”.

Per lei, la geografia è un’esperienza immediata, quasi intuitiva. I luoghi in cui cresciamo – che siano città o paesi, nord o sud – plasmano il nostro sguardo, il nostro modo di stare al mondo, perfino il nostro carattere. Ma non si tratta solo di coordinate sulla carta: la geografia è fatta di strade percorse, quartieri attraversati, confini osservati. È una dimensione vissuta, concreta, quotidiana.

E proprio perché vissuta, la geografia diventa anche una chiave per comprendere la storia. Camminare per certe vie, magari secondarie e apparentemente marginali, significa toccare con mano le tracce del passato, cogliere i segni silenziosi delle vicende collettive. I luoghi non sono neutrali: raccontano, custodiscono, evocano.

Per Manzon, dunque, la geografia non è alternativa alla storia, ma è la sua porta d’ingresso: si parte dallo spazio per arrivare al tempo, si parte da ciò che si vive per comprendere ciò che è stato.

Cosa ce ne facciamo della storia? Del passato?


È da questa domanda che ha preso forma Alma, ed è questa la domanda che ha accompagnato Federica Manzon lungo tutta la scrittura del romanzo.

La scrittrice ha ricordato una riflessione dello scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua, che parlando del popolo ebraico e della sua storia ha posto con lucidità una questione radicale: “Per costruire davvero un futuro diverso, bisogna saper dimenticare.” Ma – sottolinea Manzon – Yehoshua poteva permettersi di dirlo perché quella memoria la conosceva profondamente. Senza la conoscenza, infatti, dimenticare non è un atto di libertà ma un rischio: ci rende vulnerabili, manipolabili.

Il senso ultimo del romanzo allora non è trattenere il passato come qualcosa di statico, né rifiutarlo in blocco. È piuttosto quello di rileggere il passato come qualcosa di vivo, che ci attraversa e ci forma, e da cui possiamo lasciar andare le parti peggiori, conservando invece quelle che, rielaborate con consapevolezza, ci aiutano a immaginare un futuro migliore.

Federica Manzon scrive per costruire ponti: tra culture, tra generazioni, tra chi la guerra l’ha vissuta e chi ne riceve soltanto l’eco. E soprattutto scrive per restituire dignità e complessità alle persone: non ai governi, non alle etichette, ma a quei singoli individui – come Vili – che portano sulle spalle mondi frantumati, desideri di pace, identità ancora da definire. In un tempo che semplifica tutto, la letteratura resta uno dei pochi spazi in cui possiamo imparare a conoscere davvero, e forse, proprio per questo, anche a dimenticare meglio.