di Sofia Perissinotto
All’interno dello Spazio Officina, quello tra Adania Shibli e Maria Nadotti è un incontro denso, che muove tra lingue differenti, che chiede tempo e ascolto profondo, per intrecciare i fili del discorso. Sarà qui restituita, attraverso alcuni nodi, la trama principale; con la premessa che ogni traccia è insieme promessa e tradimento, e manifesta un’assenza.
IL SILENZIO È LA MIA LINGUA
Shibli racconta che i suoi genitori amavano il silenzio. Quando arrivavano a casa gli amici del padre, gli uomini stavano seduti insieme, ma senza parlare. La frase più frequente rivolta ai bambini era “state zitti e state buoni”. Per anni, cresciuta in una casa dove non si parlava, si è chiesta cosa significasse. I suoi genitori avevano 15 anni quando c’è stata la Nakba; hanno vissuto direttamente la distruzione della Palestina, delle famiglie, dei villaggi e non sono riusciti a raccontare quello che hanno visto. Oggi anche lei sente questa incapacità ad esprimere, quando non trova le parole per parlare con il figlio della Palestina, perché non vuole sia deluso dall’umanità. Probabilmente anche il silenzio dei genitori era intenzionale, non volendo, non potendo narrare quello che era successo.
Quando poi il suo silenzio si è trasformato in lingua, la lingua è stata l’arabo classico. Una lingua scritta.
SULLLA GIOIA DELLA LINGUA
e le relazioni con i traduttori.
Il problema principale con i traduttori, per Shibli, è che l’arabo che si impara oggi nelle università ha una forte impronta coloniale; e questo toglie dignità. L’arabo che lei ha imparato a scuola era quello antico, risalente al sesto secolo. Non capiva il significato, ma è così che ha imparato che la lingua non è solo comunicazione, ma è molto di più: è anche ritmo, suono, sensazione. La ripetizione dei poemi epici era il gioco negli intervalli ed è così che sono cresciuta con questa gioia diversa nei confronti della letteratura. L’impronta colonialista, presente nell’arabo usato dai traduttori, è quello che la porta a litigare con molti: vorrebbe imparassero ad abbandonarla per ridare dignità alla lingua, innamorarsene, scoprirne la gioia.

L’UOVO
da come si chiama in arabo quello che è in corso in Palestina.
Shibli risponde che è una domanda dolorosa, perché non è solo strettamente linguistica, è esistenziale. Sceglie quindi di rispondere con una storia. Sul suo balcone, vivevano due piccioni; che lei vede mentre lavora. Un giorno la femmina vola via, ma lascia un uovo. Il maschio si mette, con pazienza, a fare la guardia. Una mattina, mentre sta scrivendo, vede una cornacchia: l’uovo scompare. Il maschio torna, Shibli lo vede guardare ovunque, cercare con le zampette. Vede la sua tristezza. L’autrice palestinese dice che probabilmente anche lei ha fallito allo stesso modo: non ha ancora trovato le parole giuste per parlare di quello che sta succedendo a Gaza. Dice che questo è ciò che accade nel dolore profondo, si perde il linguaggio: gridi, urli, stai zitto, ma non riesci a parlare. A scrivere, però, si.
PERCHÈ LA MORTE NON È LA FINE DI TUTTO
Maria Nadotti ricorda come non sono mai arrivate tante voci da Gaza come negli ultimi 18 mesi; e che la maggior parte sono scritte. Una di queste voci è quella del poeta Refaat Alareer, che pochi giorni prima di venire ucciso compone una poesia in cui scrive se dovessi morire, fa che sia un racconto.
Per Shibli c’è molto da imparare da Gaza e dagli scrittori di Gaza. Una delle riviste più importanti della Palestina e del mondo arabo, la Rivista 28, come le 28 lettere della lingua araba, viene pubblicata proprio a Gaza. La morte non è la fine di tutto se con la lingua si può continuare a raccontarlo. Ricorda di quando era bambina e ascoltava il docente spiegare l’Ebraismo, il Cristianesimo, con i loro miracoli. Maometto, invece, non aveva fatto nessun miracolo. Ma il docente spiegava che il più grande miracolo dell’Islam è proprio un libro: nella cultura araba c’è una grande fiducia nella lingua e nelle sue ventotto lettere.
SULLE INFINITE POSSIBILITÀ
Nei libri di Shibli i linguaggi alternativi al linguaggio verbale sono ben presenti. Ci sono silenzi e ci sono i sensi, c’è molto odorato, vista, udito, tatto. I suoi racconti sono fisici. Ma c’è molta matematica, molta geometria. Ed è così che, chi legge, può ritrovarsi, come Maria Nadotti, anche a contare.
L’autrice si è sempre interrogata sul rapporto tra matematica e linguaggio; entrambi offrono infinite possibilità. I numeri sono infiniti, e per lei questo è un segno di speranza e vorrebbe che così fosse anche per la lingua, perché anche la lingua ha possibilità infinite. Si è interrogata, con i giornalisti della Rivista 28, sulle potenzialità della lingua. Queste persone, che non se ne sono mai andate da Gaza e che lì sono imprigionate, vanno avanti anche grazie alla matematica e al linguaggio, che permettono loro di guardare all’infinito. Promettono speranza.


Se dovessi morire,
tu devi vivere
per raccontare
la mia storia
per vendere le mie cose
per comprare un po’ di carta
e qualche filo,
per farne un aquilone
(fallo bianco con una lunga coda)
cosicché un bambino,
da qualche parte a Gaza,
guardando il cielo
negli occhi
in attesa di suo padre che
se ne andò in una fiamma
senza dare l’addio a nessuno
nemmeno alla sua stessa carne
nemmeno a se stesso
veda l’aquilone, il mio
aquilone che tu hai fatto,
volare là sopra
e pensi per un momento
che un angelo sia lì
a riportare amore.
Se dovessi morire,
fa che porti speranza
fa che sia un racconto!
(Refaat Alareer, Gaza, 2023)