di Sofia Perissinotto
Non sono uno scrittore, sono un autore di saggistica a cui è stato affidato il compito di presentare i suoi due ultimi lavori. Così si presenta Aram Mattioli, al pubblico di Chiassoletteraria che, numeroso, è presente nello Spazio Officina, nell’ultima giornata di festival, domenica 11 maggio.
I libri dello studioso, saggista, professore di Storia contemporanea all’università di Lucerna, sono Mondi perduti. Una storia dei nativi nordamericani, 1700- 1910 (Einaudi, 2019) e Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti (Einaudi, 2024). I due lavori cercano di dare voce ai nativi americani e di prenderli sul serio, come autori della storia; un approccio accademico quanto mai necessario in questo frangente della storia statunitense.
L’amministrazione di Donald Trump, introduce Mattioli, è sinonimo di un cambiamento politico radicale: la crisi costituzionale e uno stato profondamente ingiusto stanno diventando realtà. Dal 20 gennaio 2025, il Presidente ha intrapreso una guerra culturale contro tutto ciò che si suppone non sia americano. A inizio marzo, il The New York Times ha reso noto che l’amministrazione Trump ha elencato 200 termini indesiderati: tra questi, nativi americani. In questa direzione va anche l’invito agli storici di celebrare solo la grandezza americana, ignorando tutto ciò che potrebbe essere percepito come un’alterazione del canone tradizionale.
Mattioli articola la sua densa lectio magistralis in tre parti, che richiamano quanto trattato nei suoi due ultimi volumi: la prima è dedicata a un excursus sul declino degli indigeni americani, la seconda alle politiche di assimilazione forzata, la terza è una riflessione conclusiva, che torna al presente.
Parte prima. Il declino degli indigeni americani.
Lo sterminio dei nativi americani non è solo uno degli eventi centrali della storia del Nord America, ma è anche una delle grandi catastrofi umane prima del XX secolo. L’entità, tuttavia, può essere conosciuta solo attraverso stime scarne, che è difficile conoscere con esattezza. Da quando il navigatore spagnolo Juan Ponce de Leon scoprì la penisola della Florida nel 1513, primo europeo dopo i Vichinghi a mettere piedi sul suolo americano, un numero imprecisato di persone è morto per malattie, fame, schiavitù, negligenze governative, guerre, massacri, distruzione culturale sistematica. La catastrofe, di cui ancora oggi non si comprendono le dimensioni, mette in discussione l’opinione diffusa che l’occupazione sia stata una promessa di progresso per tutti i popoli che ci abitavano. Si ripercorrono, quindi, alcuni momenti cruciali che segnano il periodo che va dal Cinquecento all’Ottocento, quando poco dopo l’indipendenza e la nascita degli Stati Uniti si radicalizza il concetto di frontiera, determinante per il compimento dello sterminio.
Parte seconda. Assimilazione forzata.
Nella seconda metà dell’800, spiega Mattioli, si rafforza la retorica della missione coloniale civilizzatrice che, muovendo da premesse razziste, mira all’assimilazione forzata, tentando, di fatto, di porre fine alla questione indiana. I vari governi provano così a rieducare i nativi sopravvissuti come bravi americani cristiani. Vengono istituiti dei collegi per indigeni, il cui funzionamento raggiunge l’apice tra il 1879 e il 1933. I collegi, espressione del sistema educativo che serve gli interessi della maggioranza bianca, hanno lo scopo di preparare a una vita alla base della piramide sociale. Dal 1891, il governo costringe i bambini a frequentarli, nonostante il volere contrario dei genitori. Qui i nuovi arrivati vengono spogliati, privati dei propri abiti, lavati e poi vestiti con nuovi indumenti e con nuovi nomi. Viene loro proibito di utilizzare le lingue tradizionali, l’unica lingua consentita è l’inglese. Le attività sono ripetitive, al mattino è prevista un’educazione elementare (di stampo patriottico- religioso) mentre il pomeriggio è per il lavoro: è attraverso il lavoro minorile, in buona parte nei campi, nelle officine o di pulizia, che i collegi riescono a provvedere al proprio mantenimento. I finanziamenti pubblici, infatti, non sono adeguati; ciò comporta sovraffollamento, condizioni igieniche scarse, denutrizione, abusi, mortalità.
Conclusione
Gli Stati Uniti non sono un paese innocente. Nella storia recente ci sono stati tentativi di guardare al passato con una prospettiva critica, come quello di Obama, quando in veste di Presidente nel 2009 si è scusato con i nativi. Con l’attuale amministrazione Trump, invece, il movimento è contrario: si cerca, ancora, di cancellare la storia reale a favore di una versione mitica del passato, in cui tutto è grande, buono, bianco e maschile. Questo richiama, dice Mattioli, quello che G. Orwell scriveva nel suo romanzo 1984: Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato. Negli stati di Trump, non è più la conoscenza a controllare il potere, ma è il potere a controllare la conoscenza. Tuttavia, sottolinea lo studioso, il compito della storiografia accademica non è quello di parlare per bocca dei potenti, ma è quello di una ricerca aperta, tesa alla verità scientifica, capace di prestare attenzione anche agli angoli più bui della storia.
E per farlo si può essere guidati da un’altra intuizione di G. Orwell, che si trova nella prefazione rimasta inedita alla sua favola La fattoria degli animali: «Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentire».