Gabriella Zalapì e Sarah Jollien-Fardel

Incontro con Sarah Jollien-Fardel e Gabriella Zalapì

Disobbedire ai padri per tornare a respirare

di Elisabeth Sassi

Dato che mia madre e mia sorella si somigliavano sia fisicamente che nel loro modo di reagire, con il tempo ho cominciato a pensare che se non ero come loro dovevo per forza essere come lui. Altrimenti come spiegare il fatto che mio padre abbassasse gli occhi quando lo fissavo senza battere ciglio, che mi maltrattasse sempre e soltanto tirandomi i capelli? Non mi dava schiaffi né mi afferrava per le spalle come faceva con loro, scuotendole come susini.

– Tratto da La mia preferita, di Sarah Jollien-Fardel, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, Edizioni e/o 2025

La giornata di sabato 10 maggio si apre con un incontro in collaborazione con Viceversa Letteratura che vede protagonista la letteratura svizzera con due autrici francofone, la scrittrice e giornalista vallesana Sarah Jollien-Fardel, con il romanzo Sa préférée (Sabine Wespieser éditeur, 2022, presentato in anteprima nella traduzione in italiano di Alberto Bracci Testasecca per e/o Edizioni) e l’autrice ginevrina, di origine italiana e inglese, Gabriella Zalapì con il romanzo Ilaria: Ou la conquête de la désobéissance (Éditions Zoé, 2024).

Cerco un paese innocente, il titolo della diciannovesima edizione di Chiasso Letteraria (preso in prestito da Girovago, poesia di Giuseppe Ungaretti) può essere inteso sotto diverse sfumature: una provocazione, tra il monito e l’accusa, oppure potrebbe anche trattarsi di un’affermazione di speranza. Una possibile chiave di lettura, per meglio comprendere il tema di quest’anno, ci arriva dall’inaugurazione di venerdì 9 maggio allo Spazio Officina, dove ci viene suggerito che, forse, l’innocenza può essere rintracciata nell’infanzia. Sono infatti un bambino e una bambina ad aprire l’edizione 2025 con la lettura della favola del lupo e dell’agnello di Fedro. Se non l’innocenza cos’altro potrà salvare il mondo? è questa la domanda proposta da Chiasso Letteraria, alla quale Katerina Gordeeva, giornalista russa indipendente e corrispondente di guerra, risponde che per lei il mondo non può essere salvato, la distruzione – che divide famiglie e crea vuoti geografici e interiori – non potrà essere sanata dalla generazione dei nostri figli e probabilmente nemmeno da quella successiva. Sempre durante la serata inaugurativa sento, distinta tra il pubblico, una voce affermare: i bambini sono tutt’altro che innocenti, sanno essere crudeli, mutilano le lucertole e maltrattano gli animali solo per divertimento. Per tornare però alla mattinata di sabato e all’incontro con Sarah Jollien-Fardel e Gabriella Zalapì: qual è allora il peso dell’ereditarietà della colpa? La violenza può essere tramandata da una generazione all’altra? Queste sono le domande dalle quale è partito Sebastiano Marvin, giornalista culturale e moderatore dell’incontro con le due autrici. L’appuntamento ha infatti approfondito il tema principale della violenza di genere, in particolare quella dei padri perpetrata su figlie e mogli, un tema che accomuna i due romanzi seppur avendo, le due autrici, approcci alla scrittura, stili e geografie narrative completamente diverse. Da una parte Ilaria: Ou la conquête de la désobéissance di Gabriella Zalapì, il resoconto emotivo e conoscitivo di una figlia che segue il padre all’uscita da scuola, senza sapere che entrare nella sua auto significherà molto di più di un semplice viaggio di famiglia, ma si tratterà di un vero e proprio rapimento, separata con l’inganno dalla sorella e dalla madre perché lui, il padre, è incapace di accettare la fine del suo matrimonio. Comincia così un road trip per l’Italia, da Roma alla Sicilia, sullo sfondo gli anni Ottanta come una colonna sonora trasmessa dall’autoradio, che vede alternata alla musica i fatti di cronaca degli Anni di Piombo. All’inverso, in La sua preferita di Sarah Jollien-Fardel è la figlia, Jeanne, a imporre una distanza fra lei e la propria famiglia, composta da un padre a cui si sente di assomigliare e da una madre e una sorella che non reagiscono ai suoi continui abusi. Ma quando ciò da cui vuoi fuggire è dentro di te, nessuna fuga è davvero possibile e allora il Vallese diventa anch’esso un personaggio, a tratti violento e pure opprimente, come racconta l’autrice Sarah Jollien-Fardel: «dico sempre che scrivo i libri che posso scrivere. Sono fuggita dal Vallese come molte persone della mia generazione. Solo invecchiando ho scoperto il mio attaccamento a questo luogo e ho capito cos’è che forgia i nostri temperamenti, anche se di recente per presentare il libro sono stata nei Pirenei, o in Bretagna, e lì le persone mi hanno detto di sentire la stessa cosa, come se ci fosse una forma di universalità dove la natura è iperpresente e dominante. Quando scrivo mi baso sui miei ricordi, ma poi faccio delle ricerche, sono molto rigorosa. Volevo scrivere un libro onesto sul Vallese e sì, può essere inteso anch’esso come un personaggio perché ha un carattere, ha un effetto sui miei personaggi, su Jeanne ad esempio ha un effetto repulsivo perché per lei quelle montagne, le vie, rappresentano il padre.»

Di tutt’altro tipo è stato l’accostarsi alla scrittura per Gabriella Zalapì, la quale – plurilingue – spiega perché nonostante l’italiano sia la lingua del padre e la lingua parlata lungo le tappe del rapimento, abbia scelto di scrivere il romanzo in francese: «l’Italia è il Paese in cui mi sento a casa, ma è anche il luogo del trauma. Quindi ho un rapporto un po’ complesso con questo Paese e la sua lingua. Per me l’italiano è la lingua della ferita. Così ho scelto di scrivere il romanzo in francese, per creare una distanza. Il libro racconta eventi che mi sono accaduti, ma non è autobiografico, ho scelto di ispirarmi a fatti che mi sono accaduti, nei quali però ho inserito molta fantasia. È una forma che è venuta naturale e c’è una ragione particolare per cui ho deciso di raccontare la storia in questo modo, quasi come fosse un diario, ma non so se si possa davvero definire così. La narrazione è cronologica, si susseguono piccoli eventi, ma è stato un procedere per tentativi: all’inizio ho scritto in terza persona, ho scritto in inglese e ho provato altre forme, ma la forma cronologica è stata quella che ho scelto alla fine, perché permettere a chi legge di entrare a poco a poco nel corpo di questa ragazza, Ilaria, nella sua testa e anche per restituire un’idea della temporalità e delle conseguenze che un rapimento possono apportare al corpo, ma anche alla testa: di come questo tipo di evento può cambiare il rapporto con la realtà».

Un punto di contatto tra i due romanzi è infatti la narrazione lineare e, anche se approfondito in maniera diversa, il tema della violenza patriarcale all’interno del nucleo familiare. Sarah Jollien-Fardel: «Jeanne proviene da una famiglia in cui la violenza del padre occupa tutto lo spazio. È una violenza terroristica, il che significa che impone la sua violenza su tutto, non c’è motivo per la violenza, lui è violento perché il tempo è bello o perché piove, o perché qualcosa è troppo cotto o poco cotto, è una persona profondamente crudele. La sorella e la madre di Jeanne camminano sempre sulle uova cercando di schivare i colpi del padre, ma Jeanne ha qualcosa di speciale, non è sfrontata, ma diciamo che riflette qualcosa del padre che fa sì che sia un po’ protetta dai continui attacchi, tranne per un’occasione in cui viene picchiata duramente. Jeanne, forse per il senso di colpa, si è imposta la missione di proteggere la madre e la sorella, perché sente di essere un po’ diversa».

In una maniera affine anche Ilaria, la protagonista del romanzo di Gabriella Zalapì, è obbligata a disobbedire, perché non c’è ossigeno nel rapporto con il padre. Disobbedire, per entrambe, è la maniera per trovare il loro spazio e, secondo l’eredità di Virginia Woolf, non vi è nulla di più prezioso da cui ripartire.

L’incontro è stato tradotto da Ruth Gantert.