Di Arianna Limoncello
Uno tra gli ultimi appuntamenti della domenica di ChiassoLetteraria ha visto come protagonista la giovane autrice inglese Julia Armfield, che ha presentato per la prima volta in lingua italiana il suo romanzo Le nostre mogli negli abissi (Bompiani, 2024). Dell’autrice, Bompiani aveva già pubblicato nel 2022 la raccolta di racconti Mantide. All’inizio del 2025 è uscito il suo ultimo romanzo, Private Rites, non ancora edito in italiano.
Uno scavo verticale in un altrove irrequieto, minaccioso, estremamente vivo è al centro di Le nostre mogli negli abissi, che vede protagonista una coppia di giovani donne che raccontano, alternandosi, l’inabissamento di una delle due nelle profondità dell’oceano. Leah è infatti una biologa marina incaricata di un’importante spedizione che la porterà a esplorare l’oscurità degli abissi, incontrando diverse complicazioni che prolungheranno la sua sosta sul fondo dell’oceano per diversi mesi e la porteranno a confrontarsi con l’attesa e l’imprevedibilità; ma è soprattutto Miri, fra le due, che ci apre maggiormente le porte del suo mondo interiore. A lei è affidato il racconto del periodo successivo al ritorno di Leah, dell’osservazione del mutare del corpo e delle abitudini dell’altra, del cogliere che qualcosa nel loro rapporto è irrimediabilmente trasformato. Le nostre mogli negli abissi è la narrazione di una coesistenza di mondi, quello marino e quello terrestre, che, come due rette parallele, non sono destinati a entrare in comunicazione: in seguito all’inabissamento, Leah non sarà più la stessa; perfino il suo corpo, adattatosi alla vita sottomarina, presenterà delle mutazioni che non le renderanno più accessibile la vita sulla terraferma. Il “mare alchimista che tramuta le cose” che leggiamo nella quarta di copertina è anche però il mare interiore, con i suoi tumulti, le sue tempeste, i suoi cambi di vento, le sue parti cristalline, un mare in cui Miri sarà costretta a specchiarsi e ritrovarsi dopo il ritorno di Leah. Così le zone dell’ambiente marino, dall’epipelagica alla più profonda hadopelagica, non rappresentano solo la discesa di Leah nei luoghi più remoti del pianeta, ma anche una stratificazione dell’animo umano, con le sue zone più inaccessibili.
Se acqua e terra sono in opposizione nel primo romanzo di Armfield, nella sua ultima uscita, l’una si riversa completamente nell’altra. In Private Rites una pioggia incessante costringe l’umanità a ripensare il proprio modo di organizzarsi socialmente e architettonicamente. Stavolta l’esplorazione verticale, in contrasto con quella di Leah, punta verso l’alto; il romanzo parla infatti di tre sorelle che si ritrovano a fare i conti con la morte del padre, un famoso architetto che ergeva palazzi per coabitare la crisi climatica. L’ambiente in Private Rites diventa esso stesso un personaggio, la città prende parola per constatare la sua trascuratezza, per chiedersi che tipo di spazio si deve ritagliare la ritualità umana in una terra devastata, sommersa. La fine del mondo non è apocalittica, la distopica visione di una conclusione in questo libro non è remota, ma si insinua nella collettività esattamente come la pioggia battente con cui i personaggi si sono abituati a convivere.
Dopo l’incontro, moderato da un brillantissimo Marco Cantoni, abbiamo chiesto a Julia Armfield di parlarci della sua scrittura, per capire cosa si cela dietro una penna così particolare.
Uno dei leitmotiv della tua scrittura riguarda l’acqua. Our wives under the Sea narra di questa immersione prolungata negli abissi di Leah, una delle due protagoniste del libro. Da dove nasce la tua fascinazione per la tematica degli abissi? Cosa rappresenta per te la discesa nell’abisso?
Da un lato penso che la risposta principale a queste domande sia l’acqua. Mi è stato chiesto spesso dell’acqua perché ne scrivo molto a proposito e ripeto sempre che non mi ero resa conto, finché non mi venisse chiesto più volte, di quanto i media lesbici formativi della mia giovinezza derivino dall’acqua. Uso sempre l’esempio dei romanzi di Sarah Waters, molti dei quali sono ambientati in riva al mare, o dei film di Céline Sciamma. Water Lilies (di Sciamma appunto) parla di nuoto sincronizzato e Portrait of a Lady on Fire è ambientato in riva al mare. Credo che tutto questo sia materiale che ho integrato e ho restituito poi nella mia scrittura. Penso che l’acqua sia uno strumento, un mezzo molto utile per esprimere le cose che mi interessano, perché si lega ai concetti di instabilità, a quello di limite, e anche al contrasto tra la superficie e quello che si cela in profondità. Quest’ultimo in particolare è il fulcro dell’esperienza queer.
Oltre all’acqua c’è poi il concetto di abisso. Il film The Abyss di James Cameron è uno dei miei film preferiti, lo amo profondamente. In quel film l’idea dello spazio profondo si connette ed entra in dialogo con la dimensione dello spazio, due luoghi dove gli umani non dovrebbero trovarsi ma in cui insistono ad andare comunque. E mi interessa molto come l’esplorazione marina, così come quella dello spazio, ci venga spesso presentata come qualcosa che viene fatta per il bene dell’umanità, mentre in realtà viene portata avanti per gli interessi di un piccolo numero di miliardari. E volevo esplorare cosa significasse essere un corpo all’interno di questo contesto. I personaggi di Our wives under the Sea sono stati spediti nell’abisso per volere di una losca agenzia che non si preoccupa di loro come cose diverse da un corpo, per loro non sono altro che corpi in una spedizione. Si tratta sempre di corpi sotto lo stivale del capitalismo. Ero attratta dall’occuparmi di persone che vengono spinte all’estremo e che si rendono conto che le ragioni che le spingono non sono necessariamente buone.
Nei tuoi libri centrale è l’importanza data ai personaggi e ad una loro caratterizzazione molto introspettiva. In Our wives under Sea sembra proprio di fare un viaggio nella mente delle due protagoniste e nei loro sentimenti, in Private Rites lo stesso avviene per le tre sorelle (Irene, Isla e Agnes). Come nasce l’ispirazione per la creazione dei tuoi personaggi? Quanto i tuoi personaggi raccontano di te? Ci sono dei personaggi a cui sei maggiormente legata?
Per me la caratterizzazione del personaggio è molto importante, perché il personaggio viene prima di tutto. È più importante delle trame, più importante dell’ambientazione. Il personaggio informa e avverte di tutto il resto che scriverò. E credo di essere molto interessata a questo tipo di caratterizzazione perché sono abbastanza stanca dell’idea che i personaggi queer debbano essere in qualche modo moralmente “più bianchi dei bianchi”. Sono stufa del concetto di rappresentazione in ogni senso possibile. Tutto quello che voglio fare è scrivere di persone disordinate e mondane, banali. E questo mi è permesso, in un certo senso, dall’estremizzazione dell’ambientazione. Molto spesso, dato che scrivo di genere, posso concentrarmi sulle cose noiose che le persone provano perché l’ambientazione è interessante. E quindi posso anche accostare questo ambiente a cose di primo acchito noiose. Il mio personaggio preferito è probabilmente Irene in Private Rites. Lei è un incubo e mi ci riconosco.
Sempre rimanendo in tema personaggi, in Private Rites addirittura l’ambiente diventa egli stesso un personaggio, la City che viene personificata e parla in prima persona. Da dove nasce l’esigenza di parlare di cambiamento climatico in questo modo?
Da dove nasce l’esigenza di parlare di cambiamenti climatici? Penso che sia impossibile non farlo ora. L’anno scorso ho intervistato molti scrittori per eventi e cose del genere, ed è sorprendente quanto si parli di questa tematica. Non importa quale sia il genere, non importa quanto siano diversi i romanzi. Sono pochissimi gli scrittori contemporanei che non ne scrivono. Perché credo che sia la paranoia del tempo, e credo che sia la preoccupazione principale della società.
Ed è impossibile non pensarci, perché è la realtà in cui viviamo. Scrivendo Private Rites, volevo ottenere che le persone arrivassero alla fine del romanzo e sentissero che forse lo stavano leggendo come se appartenesse al genere sbagliato, e che alla fine fossero improvvisamente sorpresi dal genere. E la sezione della città personificata contiene tutti gli indizi del vero genere del romanzo che viene rivelato alla fine. Ed è un po’ come ci si sente a vivere adesso, perché viviamo in un romanzo dell’orrore, ma dobbiamo fingere di vivere in un romanzo realista in cui dobbiamo solo andare al lavoro e pagare le bollette, mentre succede sempre qualcosa di orribile. Era questo miscuglio di generi che volevo trasmettere in questo modo.
In Our wives under Sea, Leah rimane a lungo intrappolata sott’acqua e vive per mesi una condizione di stasi e di solitudine forzata. Vale anche per la scrittura? Quanto è importante la solitudine nella scrittura?
Penso che ci sia il pericolo di rarefare qualsiasi versione della scrittura. Penso che spesso alle persone piaccia dire: “Posso scrivere solo io e posso scrivere bene solo in perfetta solitudine in un prato con un dente di leone, e solo in quelle condizioni posso davvero scrivere bene”. E in realtà questa è la demarcazione di un privilegio estremo. E devo scrivere ogni volta che ne ho il tempo perché ho anche un lavoro, così come la maggior parte degli scrittori. E penso che sia così importante per le persone riconoscere che in realtà la maggior parte del tempo, se si scrive, si scrive solo quando si può. Tuttavia, scrivere è molto isolante perché ti relega in uno spazio mentale che non credo che la gente intorno a te possa sempre capire, perché pensi sempre a una cosa sola. Almeno, questa è la mia esperienza di scrittura: spesso vivi nella tua mente, anche quando non stai scrivendo. E questo può renderti un pessimo conversatore. Ma allo stesso tempo, credo che per me scrivere non sia un atto fisicamente isolante, perché non può esserlo. E penso che muoverti nel mondo, confrontarti con il reale, ti renda anche uno scrittore migliore.
Uno degli aspetti che ammiro di te è che, nonostante la tua giovanissima età, tu abbia una penna (inteso come modo di scrivere) ben definita e riconoscibile. Sei sempre molto coerente a te stessa in termini di tematiche ma anche di stile fin dal primo racconto che ho letto fino in Salt Slow fino a Private Rites. Come si trova la propria voce nella scrittura? Da dove nasce la tua esigenza di scrittura? Come mai ti approcci a queste tematiche?
Credo che scrivere sia difficile da dire. Credo che la scrittura sia un’ossessione per la maggior parte delle persone che conosco che scrivono bene e che scrivono il tipo di cose che mi interessano.
Scrivere è qualcosa che devono fare per forza, il che potrà sembrare una risposta banale. Ma è sempre stata una cosa che faccio e non è necessaria. Non è indicativo del fatto che io stia bene o che sia felice se lo scrivo o non lo scrivo, perché scrivo sempre. Deve solo essere la cosa che faccio. Penso che trovare la propria voce sia difficile perché all’inizio questa voce deriva dall’imitazione. Penso che sia difficile scrivere bene se non si legge e soprattutto se non si assimilano le cose. Gran parte della mia voce viene dal cinema più che dalla letteratura. Penso che si debba assorbire qualcosa perché altrimenti non si può costruire la propria voce. La voce di tutti viene dalla voce degli altri. Ogni cosa è un ingrandimento e un assemblaggio di voci diverse.
E credo che diventare un po’ più grandi significhi individuare più facilmente le proprie ossessioni. Quando hai 21 anni pensi di essere interessato a qualcosa, ma in realtà non ti rendi conto di quanto sei tornato alle stesse cose finché non hai 29 anni. Quindi sì, è stato così. È tutto un processo, e continua a esserlo. E la cosa che mi piace degli scrittori che amo davvero è osservare. Ma il loro stile non cambia mai necessariamente e le loro preoccupazioni non cambiano mai necessariamente. Perché la maggior parte degli scrittori che conosco scrive di tre cose per tutta la vita. Ma la saggezza e l’empatia si sviluppano nel corso della loro carriera. E questo mi piace.
Our Wives on the Sea parla anche di life-changing e la capacità di lasciare andare le persone. L’esperienza negli abissi può rappresentare la metafora di questo percorso, come insinua la scena finale del romanzo. Puoi parlarci un po’ più in dettagli di questo aspetto?
Penso che sia un romanzo sul dolore, ma anche sull’anticipazione del dolore, che è una cosa che mi interessa molto. Dico sempre che l’horror e il romanticismo nascono dallo stesso nucleo, perché entrambi hanno a che fare con la paura della perdita e la paura della morte, sono solo agli antipodi del ferro di cavallo. L’innamoramento diventa immediatamente paura della morte e paura della perdita, perché è questo il punto. Amare significa tenere così tanto a qualcosa che tutto finirebbe se quella cosa finisse. E credo che in qualche modo sia sempre questo il tema di cui scrivo. Scrivo di ossessione, di preoccupazione e di amore perché sono queste le cose che mi muovono. E credo che tutte queste cose abbiano come rovescio della medaglia il fatto che perderle sia la cosa peggiore del mondo. Quindi è il nodo a cui torno sempre.