di Elisabeth Sassi
Poeta, scrittrice e autrice di teatro, Ubah Cristina Ali Farah ama definirsi somalo-italiana, anziché italo-somala, una semplice accortezza che mette però in discussione una visione eurocentrica diffusamente interiorizzata. Una presa di posizione delicata, proprio come la sua presenza che però scuote e non lascia indifferenti. Nella sua voce si accorano quelle di tutte le persone zittite e rese invisibili dal colonialismo. Lei stessa è frutto di questa storia; nata in Italia da padre somalo e madre italiana, all’età di tre anni si trasferisce con la famiglia a Mogadiscio, dopo lo scoppio della guerra civile nel 1991 troveranno rifugio a Pécs, in Ungheria e dopo alcuni anni faranno rientro a Roma. Oggi Ubah Ali Farah vive a Bruxelles, ma non trascura il suo legame con la lingua italiana: ha pubblicato una trilogia di successo nella quale indaga la Mogadiscio degli anni Cinquanta, durante l’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia. Il romanzo Le stazioni della luna si aggiudica il Premio Lingua Madre nel 2006, mentre nel 2008 Madre piccola vince il Premio Vittorini.
Domenica 15 maggio, al termine di questa sedicesima edizione di Chiasso Letteraria, durante il suo intervento Ubah Ali Farah ha letto frammenti del suo passato in versi e in prosa. Ha raccontato come a Mogadiscio la lingua parlata quotidianamente fosse il somalo, nonostante l’immaginario fosse quello italiano, appreso sugli stessi libri di testo che i bambini e le bambine della sua età studiavano a Roma, a Catania o Firenze. Di come allora, nel tempo, per lei e per altre autrici e autori della diaspora, la lingua dei colonizzatori è diventata il terreno neutro dove le emozioni possono essere controllate, a differenza di quella lingua dei sentimenti, usata per comprare le spezie al mercato, per dire ti amo, per elaborare il dolore. Per questa ragione Ubah Ali Farah ci legge i versi di Rosso in italiano, ma canta l’intraducibile melodia, al suo interno, in somalo. Questa sua condizione, a metà tra due mondi, tra due culture, l’ha eletta suo malgrado interprete all’interno della sua famiglia mista, con tutte le responsabilità che questo incarico comporta. Le figure femminili – collante delle sue narrazioni – svolgono questo ruolo di mediatrici tra le sfaccettature delle varie società patriarcali in cui i personaggi maschili faticano a trovare il loro ruolo. Ali Farah ci restituisce spaccati di quotidianità scarsamente rappresentate, nascondendo nelle sue scelte letterarie eleganti rimandi, che solo un’interprete di mondi complessi può cogliere. È il caso del titolo del suo romanzo Madre piccola, un calco dal somalo habar yar, ben lontano dal significato di madre giovane o di madre minuta, ma che richiude l’essenza di una figura ben lontana dall’immaginario contemporaneo occidentale: non è la maternità intesa in senso biologico, ma descrive quella persona che dà affetto ai bambini e alle bambine, patrimonio condiviso all’interno della comunità. Oppure ancora l’accostamento ossimorico tra maternità e guerra, che compare spesso nella sua scrittura – due elementi tragici resi lievi e dall’abile penna di Ali Farah. In conclusione, possiamo dire che ciò che rende grande la scrittura di Ubah Cristina Ali Farah è proprio questo: cercare di restituire la complessità di una parte di mondo dimenticata o strumentalizzata, ma sottovoce, cantando; perché la gentilezza, l’arte e la letteratura sono più persuasive degli slogan politici.
Qui sotto, Rosso letto da Ubah Cristina Ali Farah, seguito da una breve intervista: