di Arianna Limoncello
Ci si può abbandonare a quella coerenza; i tormenti dell’Apocalisse sono più affidabili delle telenovele dei Vangeli, e le fiabe in cui alla fine muoiono tutti sono più rassicuranti di quelle in cui si dà pace, perché la pace va gestita, la fine solo smaltita.
Claudia Durastanti è stata ospite nel pomeriggio di sabato, insieme a Nicola Gardini e al musicista Carlo Fava, per dialogare con Massimo Zenari nell’ambito del programma Alice di Rete Due. Durastanti è attualmente impegnata nel tour promozionale del suo ultimo libro, Missitalia, edito a marzo da La Nave di Teseo.
Missitalia è un libro complesso, stratificato, solo in apparenza molto diverso rispetto all’ultima pubblicazione di Durastanti, La straniera (i lettori che hanno amato quel libro, troveranno in questa nuova uscita molteplici fili conduttori). Si tratta di un libro tripartito, strutturato intorno a tre storie distinte (ma le cui atmosfere si sfumano l’una nell’altra), collocate in epoche e luoghi diversi. Passiamo infatti da una prima storia ambientata nella Val D’Agri nell’epoca del Risorgimento, ad una Roma degli anni cinquanta, per approdare infine sulla Luna in un futuro non troppo lontano dal nostro. Un libro misterioso ed etereo, quest’ultimo di Durastanti, che ci fa conoscere dei personaggi femminili memorabili, che non usciranno facilmente dalle nostre menti e dai nostri cuori.
Durastanti ha un rapporto particolare con la lingua dei suoi romanzi. La riflessione morfologica, gli spunti veicolati dalla traduzione, sono componente essenziale del suo stile narrativo e sono uno dei tanti elementi che impreziosiscono la sua scrittura. Per farvi capire quello di cui stiamo parlando, vi proponiamo la lettura dei seguenti due estratti. Il primo è tratto da La straniera:
In italiano, il verbo “sentire” coincide con la capacità di provare un sentimento e un senso preciso, l’udito. In inglese non è così, “to hear” e “to feel” sono due azioni ben distinte. Non so come funzioni nelle altre lingue. E non so come potrò tradurre le volte che mia madre resta distesa sul letto con gli occhi chiusi e bisbiglia “Non sento niente”, senza perdere tutto quello che vuole dirmi.
Il secondo è tratto da Missitalia:
Sud, una s che sibila come un rettile prima di allungarsi e distendersi nella conca assolata della u e prima che una d venga a fermarla e a mozzarle la testa; una parola corta e disinvolta che però viene dal Nord. (…) Suth, la s di un rettile che si distende nella conca assolata della u e poi viene troncata dalla lama di una t, che tuttavia non fa in tempo a esprimersi e a rivelare la sua cattiveria che già viene assassinata e aspirata dall’h, la lettera che fa sparire le cose inghiottendole nel suo respiro.
Chiediamo quindi all’autrice, al termine dell’incontro…
Nei tuoi libri appare costantemente la riflessione linguistica, che da una parte contempla le sfumature di significato e dall’altra insiste sulla componente morfologica nel senso più letterale del termine. La forza a mio avviso di queste riflessioni è che naturalmente non sono estemporanee, non si riducono al mero esercizio di stile, ma si incastonano perfettamente nella struttura di quel che narri. Il tuo rapporto con la traduzione e il tuo lavoro come traduttrice come influiscono sull’elaborazione di queste riflessioni? Come nasce questo rapporto tra significante e significato, nei tuoi libri?
Credo che si possa dire che c’è quasi una sorta di spartiacque nei miei cinque romanzi. Là io ho esordito in Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra con un rapporto non oso dire letterale con la lingua però c’era appunto questa grande fiducia nella coincidenza tra significante e significato. Il lirismo, se vogliamo, la poeticità non la andavo a cercare nella scomposizione del linguaggio, la cercavo nelle dinamiche psicologiche, tra i personaggi, nella costruzione delle atmosfere, nell’ambientazione geografica, tutti se vuoi correlativi oggettivi. Per me è stato invece significativo l’intensificarsi dell’attività di traduzione a partire dal 2013 in poi, ma non con tutti i libri; posso citare il tradurre all’inizio Joshua Cohen, che è un autore che veramente fa fare alla lingua, al giro di frase, quello che vuole e fa tantissimi giochi di parole. Adesso sto lavorando su Dickens, oppure su Elizabeth Hardwick, che è una scrittrice, si può dire simbolista, in qualche modo, che lavora molto sulla sinuosità del linguaggio. Infine vi è stato il lavoro su Ocean Wong. Ci sono state esperienze di traduzione in cui questo rapporto di decostruzione della lingua era più vivace e viscerale che hanno lasciato su di me un’impronta fortissima e quindi forse non era un’intuizione originaria di me come scrittrice. È un prestito, un apporto che arriva dalla traduzione ed è talmente esplicito e importante che arriva come posizione a dare il titolo alle opere. Io credo che Missitalia non sia un titolo che mi viene dall’essere bilingue e quindi in qualche modo da questo rapporto con la lingua inglese, con la matrice, con la tendenza a fare dei calcoli o a perdermi tra i falsi amici. Io credo che Missitalia sia un titolo che viene da una mente allenata con la traduzione che è in qualche modo più aperta alla polisemia, al fraintendimento. Una persona perfettamente bilingue se lo perde un po’ il concetto di “to miss”, perché si lega subito al contesto di una frase che vuol dire mancanza e non signorina. Invece per me questo fatto di sbagliare è significativo. Anche ne La straniera lo dicevo che la traduzione può essere anche l’arte dell’errore poetico e quindi è un’influenza talmente precisa che addirittura indirizza la scrittura. Per esempio Missitalia è un titolo che viene molto presto nella stesura del romanzo e fornisce una direttrice. È un romanzo costruito su una polisemia.
Durastanti, che nutre un rapporto viscerale, catartico con il linguaggio, è capace anche di riflettere sui suoi limiti e sulla sua insufficienza, come emerge in questo passaggio di Missitalia:
“Una cosa che ho imparato dal lavoro di Micheal sui canti e le musiche popolari è che crescendo noi perdiamo il linguaggio. Ascoltando le canzoni delle ragazze di Castelluccio, le variazioni nelle loro voci, mi sembrava di essere nata con un armamentario molto più ampio a disposizione, che ero venuta al mondo con la capacità di intercettare molte più sfumature nelle parole e nelle musiche involontarie attorno a me. Crescere era rinunciare a quella polifonia per diventare comprensibile, ma il rifiuto della comprensibilità è stato la cosa più bella che ho imparato in Lucania, una forma di ricchezza che mi ha fatto provare una strana pace col mondo”
Questo passo di Missitalia mi ha fatto pensare al tema del festival (alla riflessione intorno al primitivo, al naturale, all’incontaminato). Mi ha colpito quest’immagine dell’armamentario che si riduce con la crescita e quindi con l’abbandono di uno stato primitivo caratterizzato dall’infanzia. Il linguaggio è uno scarto rispetto ad una polifonia antica? Tu che limiti vedi nel linguaggio?
Nel romanzo di Missitalia, se ci fai caso, si ha una perdita di vocabolario. Dalla prima parte in poi c’è una desaturazione che forse un po’ riflette nella scelta stilistica quello che è una convinzione di Ada. Per me è stata una sorpresa arrivare a esprimere questo pensiero, perché ho sempre creduto che apprendere una lingua, dominarla, conquistarla, coincidesse con ampliare il numero di registri a disposizione, ampliare i propri vocabolari, estendere le proprietà della lingua. Ma quello rischia di essere un rapporto superficiale, in un certo senso, che compri delle parole, magari ne scarti delle altre, però non va a incidere profondamente con l’inventività della lingua. E quindi l’esperienza di crescere è una rinuncia a questa incomprensibilità. Penso al linguaggio dell’infanzia, un linguaggio che può stare nelle figure in qualche modo sulla soglia. Mia madre è una persona che nella sua sordità ha un rapporto con la lingua immaginaria, con le voci percepite, insomma sulla soglia anche di un’esperienza di allucinazione rispetto al mondo; però quello per me è quasi come riconnettermi a una potenza generatrice della lingua che, in qualche modo, imparando a parlarla bene, conoscendola bene, senza questo intervento di sabotaggio o di recupero di vocabolari perduti, io non mi so riconoscere più e quindi lì l’ho fatto proprio dichiarare al personaggio. È stata anche un po’ la mia esperienza: quando sono emigrata in Italia da bambina, ho avuto un approccio marziale alla lingua italiana. Ero convinta che per diventare una buona persona, una brava cittadina, una brava ragazza, dovessi parlare bene e quanto ho sacrificato dell’estro, della personalità o di un lessico personale (non familiare)… E quindi queste ragazze, in qualche modo, nella loro spontaneità, rivendicano queste proprietà manipolatrici del linguaggio ai limiti dell’incomprensibilità come risorsa e quindi diventano delle coordinate che nessuno può trovare. Sono una X in un alfabeto un po’ sfuggente.
In Missitalia si assiste a questo processo di riduzione da un prima storia molto affollata, molto ricca, molto densa. Si procede verso una rarefazione che si legge anche nei nomi dei dei personaggi, dove sembra che ogni nome sia “il contenitore” di quello successivo. Tant’è che nella seconda parte c’è un passaggio dove Ada dice che sente anche il bisogno di “smaltire le persone”. Ci puoi spiegare il significato di questa riduzione?
La racconto come un’iterazione della stessa donna a partire da una stessa matrice – madre Amalia Spada. Però è anche vero che sono dei nomi matrioska, ognuno contiene l’altro, e quindi hai una figura più ingombrante, totale, larga, inclusiva come madre e poi c’è un percorso di distillazione o se vuoi anche di individuazione del personaggio. Man mano in questi due mesi che è uscito Missitalia ho capito meglio il romanzo. Io credo che le letture e i feedback mi abbiano aiutata a distinguere meglio quello che probabilmente era stato un movimento (senza entrare nello spiritismo della letteratura) abbastanza istintivo, inconscio, di articolare questi personaggi femminili all’interno di un percorso di individuazione. Insisto su questo termine perché anche se A si ritrova sulla luna a confrontarsi con la problematicità della parola dell’assenza della fine, la rigenerazione è costante quasi come un’esperienza claustrofobica. Inaugura una stagione di ottimismo e rigenerazione costante e poi genera anche una stanchezza in qualche modo sentimentale, affettiva, intellettiva il pensare di non poter portare mai a termine delle esperienze. C’è sicuramente la paura di farlo, ma il personaggio si rende conto che la spaventa più il contrario, cioè la paura di finire qualcosa, la paura di non finirla mai perché lì non può accedere a nessuna nuova versione di sé; quindi magari dopo A c’è un’altra figura ancora, in un certo senso, e questa cosa di mettere il punto era un omaggio forse ai nomi sigla codificati in tanta narrativa di genere distopica, fantascientifica. Amalia Spada è chiaramente un nome che riflette lo stile tardo ottocentesco, esasperatamente romantico. Ada è un nome da romanzo neorealista italiano. E invece lì, proprio nell’estetica, ricorda i codici dei generi. Però per me quel quell’immaginare una A puntata con una fine significa anche l’unico modo per poter pensare che dopo di lei ce ne sia un’altra e quindi chissà, forse è qualcosa che esplorerò nel romanzo nuovo, perché io credo che i personaggi femminili dei miei romanzi dialoghino dal primo testo in poi, si travasano, come dicevo prima. Mi piaceva questa cosa dei Pensieri selvaggi e, come sai, delle ere giustapposte, e non tutte le specie sopravvivono, si trasformano, però alcune attraversano più fasi. Ecco, ci sono delle idee di donna che secondo me da Un giorno verrò a lanciare dalla finestra a Missitalia sono rimaste più o meno inalterate.
Questa domanda concerne invece il tuo rapporto con la dimensione autobiografica nei tuoi libri. La seconda parte di Missitalia è scritta in prima persona, a differenza delle altre due e vi sono alcuni passaggi, alcune frasi, che mi hanno ricordato molto la voce narrante de La straniera. Ci sono delle differenze nel tuo modo di vivere la scrittura quando si tratta di un’operazione maggiormente autobiografica rispettivamente quando i personaggi sono apparentemente lontani da te? C’è un po’ di te anche in quei personaggi?
Missitalia è un libro molto intimo, molto personale, e, soprattutto all’inizio, avevo una grande vulnerabilità nel raccontarlo perché mi sembrava di essere ritornata un po’ a quando ero piccola, quando avevo sei/sette anni. Le persone a quel tempo mi chiedevano “Chi sei? Cosa pensi?”. Io parlavo di me e non ottenevo interesse. Parlavo invece dei miei genitori squinternati, della mia famiglia e sentivo che c’era un’eccitazione, un fermento nell’aria. Allora ho pensato che la letteratura era trasfigurare il mio vissuto in immaginazione e volevo creare quell’incantamento lì. Quindi il fatto di vedere che con la scrittura biografica ero riuscita a estendere dei territori, ad ampliare una comunità di lettrici e di lettori, per me è stata un’esperienza bellissima, ma mi ha generato anche insicurezza. Per quanto concerne la terza persona di Missitalia… questo è un libro tanto personale perché lavora sui temi della mia vita ovvero il ritorno in Italia, delle esperienze di rigenerazione e trasformazione sentimentale, gli studi che ho fatto… è veramente una mia biografia sfalsata, soprattutto nella seconda parte. Ho voluto utilizzare la terza persona per esercitare maggiore controllo, però confermo l’idea che si possa scrivere di sé in maniera totalmente romanzesca e si possa scrivere un romanzo con la grande vulnerabilità, la crisi e il sentimento che ti viene da una scrittura estremamente personale o diaristica. Quindi confermo questo rapporto rovesciato tra la prima persona e la terza.
L’ultima domanda che ti pongo oggi mi è venuta mentre finivo Missitalia e ragionavo sui tuoi libri. Anche se durante l’incontro hai affermato di essere un po’ allergica all’idea di ereditarietà, se potessi incapsulare uno dei tuoi libri da spedire ai posteri sulla Luna, quale sarebbe? Perché?
Sono sempre risposte situate in un momento specifico. Quindi oggi ti direi Missitalia, non perché è l’ultimo e c’è un discorso di promozione, ma perché credo che, per tanti aspetti, sia un libro che abbia raccolto tutti i materiali dei miei libri precedenti, quindi forse sarebbe il più completo. In un certo senso è un libro che completa La straniera, quindi probabilmente è La straniera quello che lascerà un’eredità maggiore nei ricordi effettivi. Dal punto di vista autoriale però, di continuità stilistica, direi questo. È stato un romanzo di esplorazione, avventura, meraviglia e quello che io mi sono divertita più a scrivere. Sì, decisamente incapsulerei questo, adesso.
Possiamo dire che noi vorremmo incapsulare tutti i romanzi di Durastanti?