di Arianna Limoncello
Quando si era definita “Bestia di notte” era più che altro una battuta bonaria, autoironica, perché era fatta così, era una tipa scherzosa, che sapeva prendersi per il culo: certo non una di quelle personcine rigide, rigidine, rigidone, a tal punto suscettibili da non saper riconoscere l’ironia di un contesto amichevole, in cui non c’era l’ombra dell’insulto, ma nei giorni seguenti a questa definizione si era ritrovata un mucchietto di peli ispidi e neri che le spuntavano alla base del collo, e insomma, che cazzo. Mi sa che mi sto trasformando in un cane, disse al marito rientrato a casa dopo una settimana di assenza per motivi di lavoro. Lui si mise a ridere, lei no.
L’incipit di Nightbitch è curioso, accattivante, e invita a sostare fin da subito nella mente e nei pensieri di una protagonista senza nome che sentiremo incredibilmente vicina a tutte noi qualche modo, la cui storia lascerà un piccolo germoglio di folgorazione indipendentemente dalle nostre esperienze e dai nostri vissuti. È la prima riflessione che ho condiviso con l’autrice, Rachel Yoder: non sono una madre, non sono un’artista, ma mi sento in ogni caso una Nightbitch. Forse alla dedica iniziale (A mia madre e a tutte le madri) si potrebbe aggiungere una postilla, “A tutte le donne”. Rachel è d’accordo con me e mi ringrazia per aver stabilito una connessione così forte con il libro. Perché è questo il potere dell’esordio di questa autrice americana, permettere a tutte (e a tutti) di empatizzare con la sua scrittura in maniera intensa. Nightbitch è un vividissimo racconto (in una terza persona talmente ben connotata e sviscerata da parere quasi prima) di una donna costretta a rinunciare alla propria carriera d’artista per adempiere ai suoi compiti di madre a tempo pieno. Doppiamente relegata a questi suoi doveri data l’assenza del marito in costante trasferta per lavoro, la madre trascorre le sue giornate ad occuparsi del figlio di due anni, annaspando fra cure da dedicargli e l’impossibilità di ritagliare del tempo per se stessa. Finché un giorno, o meglio una notte, accade qualcosa…
Un tempo la donna era una madre. Ma poi, una notte, era diventata qualcos’altro.
Ed è proprio questo “Qualcos’altro” che dà il via ad una narrazione intrisa di tensione, di confusione, ma, contemporaneamente, di lucida consapevolezza.
Premette il punto alla base della spina dorsale con due dita e scattò per il dolore, poi si voltò di nuovo per esaminarsi allo specchio. Non potendo avvicinarsi a sufficienza, prese uno specchietto, che fornì poche delucidazioni sulla natura del bozzo, e finì per scattarsi delle foto con il cellulare, che dopo vari tentativi le restituirono soltanto una massa rossa sfocata sullo schermo. Le parve di sentire un pelo spuntare dal bozzo e decise che strapparlo con la pinzetta le avrebbe procurato sollievo, quindi cercò di pizzicarlo alla cieca per un po’, finendo solo per esacerbare il dolore e far uscire un po’ di liquido. (…) Diede un’altra occhiata, il bubbone si era sgonfiato. Dall’incisione spuntava un ciuffo di peli. L’unica parola che le veniva in mente per descriverlo era “coda”.
Rachel Yoder è intervenuta nella domenica di ChiassoLetteraria in una conversazione magistralmente architettata da Ilenia Zodiaco, che ha saputo far fiorire dalla lettura numerosi spunti di riflessione intorno alle tematiche del corpo, della solitudine e della rabbia incarnate in questa per noi ormai iconica madre-cagna protagonista. Prima della conferenza, Yoder ha risposto a qualche domanda per il blog di ChiassoLetteraria.
Come è nata l’idea di Nightbitch e da dove è nata l’esigenza di parlare della maternità secondo questa unica, particolarissima scelta?
Mio figlio non dormiva molto bene, come molti bambini, e forse per 2 o 3 anni da quando era nato, non aveva mai dormito tutta la notte. Ad un certo punto sono diventata molto irritabile se qualcuno mi svegliava di notte. Così io e mio marito abbiamo cominciato a scambiarci questa battuta in cui dicevamo: “Oh, la Nightbitch è emersa ieri sera, vero? “E così ho iniziato a pensare che c’era qualcosa in quell’immagine, una sorta di audacia di questa Nightbitch, che mi intrigava. E l’idea di reclamare quella parola mi è sembrata davvero potente. La prospettiva di scrivere un libro assurdo mi sembrava un buon progetto, perché mi trovavo in una situazione davvero disastrosa, come se pensassi di non essere più una scrittrice. Non scrivevo infatti da due anni. E così l’idea di Nightbitch è cresciuta piano piano; ho pensato che probabilmente non era la migliore idea scrivere un libro su una mamma che si trasforma in un cane. Ma era un’idea divertente, e in qualche modo mi sembrava anche giusta. Così ho iniziato a scrivere.
Nel suo romanzo, maternità e performance sono strettamente legate. Da dove è nata l’esigenza di stabilire questo paragone?
È una cosa a cui ho pensato molto quando avevo un bambino piccolo e mi trovavo in un circolo di madri, ad esempio in un momento di gioco o fra i libri per bambini. Mi sono sempre sentita come se non volessi interpretare la maternità in modo corretto, convenzionale, come se tutte le altre si comportassero in modo così ordinato. Sentivo frasi come “Ho le mie merendine”, “Ho i miei pannolini”, “Sono davvero felice” “Il bambino è pulito”, “Il bambino è vestito”… Insomma, una performance di maternità efficiente e perfetta. E ho pensato che per me non è così. Io non dormivo da mesi, non mi facevo la doccia da settimane, avevo dimenticato la merenda…. Mi sono sentita molto alienata, credo, perché sentivo di non essere come le altre mamme. Forse questa era una facciata che loro stavano mettendo su e volevo davvero sapere cosa c’era dietro. Desideravo sapere cosa c’era dietro questa specie di facciata di perfezione, questa rappresentazione della madre perfetta. E credo che, in questa storia si possa pensare che Jen sia la madre perfetta. E una volta che si è lasciata alle spalle la facciata, ha visto che anche lei non è in grado di farlo. Ero molto interessata alla maternità come performance, soprattutto artistica. Anche questo tipo di maternità è come una finzione. Perché quando si entra in questa nuova identità, non è automatico. Non è che si ottiene la carta della maternità, la carta della madre. Occorre fingere di essere calate perfettamente nei panni di una madre. Questa riflessione ha dato il via al gioco di Nightbitch.
Il romanzo ruota attorno alla protagonista, una madre e una visual artist che incontra il suo lato più primitivo alla ricerca della propria libertà ed emancipazione. Vorrei farle una domanda sull’atto della scrittura, anche in relazione al mestiere della madre, che comporta anche una forma di espressione artistica. Come si integra e si accosta il concetto di selvaggio e di primitivo a un’attività altamente strutturata e di ricerca come la scrittura? E secondo lei, la scrittura è il mezzo più adatto per parlare di questi argomenti?
È strano, perché la scrittura è probabilmente la più cerebrale di tutte le forme d’arte, giusto? La pittura è colore immediato, istantaneamente sensuale. La danza è movimento immediato. E credo che per me la scrittura sia una sorta di fusione tra il domestico, l’addomesticato e il selvaggio, perché è un modo di toccare l’animale, di portare l’inconscio nelle parole. E credo che questo sia anche il viaggio di Nightbitch in questo libro. Dal silenzio, dalla pura rabbia animale che entra nelle parole, al parlare di questa energia che entra nell’arte. E per me la scrittura è proprio questo: si tratta di creare un’arte che crea un sé e di parlarne, di portarla alla luce. Almeno per me lo è perché sono una scrittrice. Ma penso ad esempio Pina Bausch… Credo di essere molto attratta dal suo lavoro. C’è qualcosa di molto primordiale. Lei cattura con il movimento cose che non possono essere dette a parole. E questo è il suo mezzo, giusto? E credo che stia usando il suo mezzo al massimo delle sue possibilità. Mi piacerebbe esprimermi anche attraverso il canto o il movimento ma la mia voce risiede nella scrittura. È con questo che lavoro.
Ci sono parti del romanzo dove la scrittura si fa musicale, ricalcando in maniera quasi onomatopeica i pensieri della protagonista. Si fanno largo anche gli elenchi, quasi come se ci fosse un tentativo di mettere a fuoco l’ossessione di Nightbitch, di dare un ordine al disordine. La trasformazione e l’ossessione passano anche attraverso il linguaggio?
Sì. La madre della protagonista era una cantante, giusto? Sua madre voleva avere questo rapporto con la musica. E penso che forse è proprio qui che entra in gioco questa sorta di parte incarnata del linguaggio per Nightbitch. Non credo che questo libro sia intellettuale; penso che stia cantando una canzone. Sta catturando una certa canzone che Nightbitch sta ululando, forse, e sta cercando di seguire quella canzone. E questo è particolarmente importante per la prima parte del libro. Stavo solo seguendo una musica, e se la scrittura non cantava correttamente, allora non rimaneva dentro. Ed è proprio questo il modo in cui penso a tutti i miei scritti: devi raggiungere le note giuste, e non so come altro spiegarlo. Deve suonare bene. Deve risuonare bene nel tuo corpo. Quindi, sì, credo che la protagonista stia cercando di capire qual è la canzone che vuole cantare. Non l’ha ancora sentita e le arriva attraverso il linguaggio.
Uno degli elementi che più mi ha colpito di Nightbitch è la disperata ricerca della protagonista di un punto di riferimento a cui affidare le proprie domande e i propri dubbi. Questo punto di riferimento lo trova nella Guida illustrata alle donne magiche di Wanda White. Mi ha colpito anche l’insistenza con cui la protagonista continua a interpellare e ritornare a questa figura senza ottenere risposta. Lei aveva qualche punto di riferimento simile dal punto di vista della scrittura, ma non esclusivamente, a cui si è rivolta durante la stesura di questo romanzo?
Credo di aver letto alcuni libri sulla maternità all’inizio del periodo materno, che sono stati completamente cancellati dal mio cervello perché… ero in una sorta di fuga. Voglio dire, ho letto Department of Speculation di Jenny Offill. Ho letto il libro di Rachel Cusk sulla maternità. Ma in realtà non trovavo nessun libro che toccasse la qualità ferina di ciò che stavo vivendo, che ne saggiasse la rabbia. Rachel Cusk ad esempio si sente molto ben organizzata, molto coltivata, molto curata. E, in una certa misura, anche Jenny Offill. Vivono nella loro testa. E questo mi piace, adoro leggere storie di questo tipo. Ma la mia esperienza non è stata così. Mi è sembrata disordinata, mi sentivo come se non sapessi come articolarla. E così ho voluto scrivere un tipo di libro diverso, come il tipo di libro che volevo leggere. Nello stesso modo in cui Nightbitch trova Wanda White: lei voleva leggere un libro che fosse ridicolo, fantasioso e impossibile. Ed è quello che avevo bisogno di leggere.
Thank you Rachel, noi di ChiassoLetteraria ti abbiamo apprezzata tanto. Non ci resta che attendere il film ispirato a Nighbitch (l’uscita in America è prevista per il prossimo dicembre), oltre, ovviamente, al prossimo libro.