di Sofia Perissinotto
Zehra Doğan è un’attivista curda e un’artista. La sua attività si muove tra le forme, tra i generi: è performer, artista visiva, scrittrice. Ha composto dipinti, acquarelli, graphic novel, racconti e altri scritti.
Imprigionata,
ha conosciuto la nostalgia di un fiore.
Lì ha scritto
Avremo anche noi dei bei giorni, il testo di riferimento di questo pezzo.
Zehra Doğan nasce a Diyarbakır, in Turchia, nel 1989, in una famiglia curda. La sua cultura è negata, la sua grammatica, da subito, è la resistenza. Intorno a lei, ovunque, si annida la violenza. Le famiglie sono divise, i genitori a combattere sulle montagne o in carcere. Cresce e per vivere fa un po’ di tutto. Con altre donne decide di fondare la prima agenzia stampa femminile, per ridare alle donne una voce, uno spazio in cui scegliere lo sguardo e le parole con cui narrarsi e narrare. Diventa reporter di guerra e segue i conflitti nelle aree curde in Turchia. Nel 2016 scrive quello che vede e lo disegna: è suo l’acquarello che ritrae una delle città curde distrutte, in cui – violente – si stagliano le bandiere turche. Per questo – e per alcuni suoi scritti – viene arrestata, poi liberata e, infine, subisce un processo che la condanna per “propaganda terrorista” a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di detenzione.
In carcere trascorre 141 giorni, ma non smette di creare; privata dei materiali abituali, si trova a scoprirne di nuovi. Su pagine di giornali, vestiti, lenzuola, usa tutti i colori che trova: scarti di cibo, fondi di caffè, guano e sangue mestruale. I pennelli sono composti con le ciocche di capelli che le sue compagne si tagliano per lei.
Il processo creativo smette allora di essere qualcosa di intimo, privato: intorno a lei, con lei, in lei ci sono le sue compagne. Così, la sua stessa idea di arte si trasforma:
Per me, un’artista deve essere una militante. Si deve rivolgere all’arte con un approccio militante. Deve fare riferimento al popolo, perché è l’artista del popolo e la combattente delle lotte popolari.
E ancora:
Perché esercitare il possesso sulle proprie opere? Perché dovrei essere contraria ai plagi dei miei lavori? Non devo appropriarmi delle mie opere. Non devo avere il senso del possesso. La cosa più importante è raggiungere la gente ed emozionarla.
Questi stralci sono un prestito di Avremo anche noi dei bei giorni, edito da Fandango. Un testo epistolare, che raccoglie le lettere inviate durante la detenzione, dal 21 luglio 2017 al 3 febbraio 2019, alla cara signora dai capelli rossi, Naz Oke, giornalista turca che vive a Parigi, con cui intesse un’amicizia i cui fili oltrepassano lo spinato.
Sempre in quelle pagine leggiamo che
Vivendo con loro capisco meglio che la vita non si riduce a me stessa.
Che la sua vita non si riduca a se stessa, ma che sia – necessariamente – amplificata, moltiplicata, plurale si è subito avvertito, sabato pomeriggio, a ChiassoLetteraria. Doğan, collegata online da Berlino, dove ora si trova senza poter uscire, ha partecipato a un incontro con la giornalista Bettina Müller, tradotto da Jamal Zandi, traduttore e attivista curdo.
Ci chiediamo.
Cosa significa parlare una lingua che esiste solo in quanto atto di resistenza?
Cosa significa occupare, invadere una sala con il suono di una lingua altrove rimossa?
E dunque come si può parlare di sé se prima non si ribadisce da dove e per chi si parla?
Nel corso dell’incontro Doğan ha fatto un passo indietro, ha eclissato la sua biografia, per parlare prima del suo popolo, il popolo maledetto. Ha scelto di percorrere con noi, con parole che non comprendevamo, ma che riconoscevamo come vibranti di rabbia e amore, alcuni momenti nodali della storia del Kurdistan.
Solo alla fine, sollecitata, ha aperto uno spazio su di sé.
Ha raccontato dell’ingresso in carcere, dell’impressionante senso di comunità e sorellanza che l’ha subito afferrata, in un luogo in cui niente è proprio e tutto viene messo in comune.
Ha raccontato di Sozdar, una delle tante compagne di prigione, che re-esiste in carcere da 22 anni. Rinchiusa da ragazzina, sembra ancora una bambina; sopravvive grazie alla sua tenacia, alla scelta di provare, comunque, a essere felice.
Ha raccontato, infine, il momento della scarcerazione, il senso di colpa che prende tutti quando è il momento di andarsene
Quando è toccato a me ho capito. Tu esci, ma non puoi dimenticare. Quando sei fuori una parte di te è lì, e non puoi dimenticarle.
Sei libera ma non puoi essere libera come si deve,
sei lì.
Avremo anche noi dei bei giorni.