di Arianna Limoncello
Non sto dicendo che non esista la malattia mentale, ci mancherebbe, ho conosciuto squilibrati da mettere i brividi, gente che godeva del dolore altrui. Ma oggi non si cura più solamente la malattia mentale, oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare. Ormai tutto è malattia, ma vi siete mai chiesti perché?
Tutto chiede salvezza è il racconto del ventenne Daniele Mencarelli che, nella torrida estate del 1994, viene sottoposto ad un TSO – trattamento sanitario obbligatorio – e si ritrova a convivere nella stessa stanza d’ospedale con altri cinque pazienti e le loro storie. Un’iniziale diffidenza e paura si trasforma in una conoscenza dell’altro che permetterà a Daniele di aprire una porta su se stesso e scoprirsi nel profondo, imparando a non concedersi di incasellare ed etichettare la propria sofferenza, aldilà di qualsiasi diagnosi. A Chiassoletteraria, la mattina di sabato 13 maggio, Daniele Mencarelli ci ha permesso di varcare insieme a lui quella soglia, in un nutritissimo incontro la cui intensità è stata affidata alle voci di alcune allieve del Liceo di Lugano 1 che hanno scavato dentro il libro ed estrapolato, insieme al loro professore Massimo Gezzi, spunti di riflessione molto interessanti e pertinenti.
Quanto a noi del blog di Chiassoletteraria, lo abbiamo incontrato prima della conferenza per porgli qualche domanda.
In Tutto chiede salvezza, il protagonista Daniele si ritrova a convivere a stretto contatto con altri degenti del reparto. L’incontro è segnato inizialmente da paura, diffidenza e pregiudizio nei loro confronti, impressioni che man mano si dissipano e lasciano spazio ad una conoscenza reciproca che alla fine si rivelerà più importante di ogni diagnosi proposta dai medici. La collettività, contrapposta alla solitudine e all’isolamento, acquisisce enorme significatività. Che ruolo ha l’altro nel rapporto con il proprio dolore e con il proprio vissuto?
Io credo che per ogni condizione umana, che sia malattia del corpo, della mente e di tutto quello che c’è tra mente e corpo che non conosciamo in termini di legami, esista una malattia più grande che rende tale malattia insopportabile, ovvero l’isolamento e la solitudine. Il disagio psichico che ne deriva rischia di creare, soprattutto in chi è giovane, l’equivoco terribile di essere i soli a vivere quel sentimento e, nel momento in cui invece ci si rivela un’umanità più adulta di chi ha passato prima di noi certe cose, che ci accoglie e ci dice “Non sei l’unico e non sei il primo”, si entra a far parte di un’umanità che convive con questi temi e che fa della condivisione il primo elemento fondamentale di salvezza. Senza togliere nulla alla scienza, alla medicina e alle molecole, per primi gli psicologi e gli psichiatri dicono che salvarsi da soli, senza una rete, è impossibile.
Rimanendo sempre sul rapporto con l’alterità, nel romanzo l’accoglienza e il percorso di crescita che si realizza attraverso il contatto con gli altri degenti si pone in contrasto con il rapporto con i medici. Apogeo di tale scarto si rintraccia nella diagnosi finale, caricata di aspettativa, della “malattia” di Daniele: le parole “vuote” e quasi sterili, meccaniche di questa diagnosi si scontrano con altre parole che emergono nel romanzo, quelle “piene” ad esempio della poesia. Che compito ha la letteratura in un percorso verso la salvezza?
È vero, io credo che esista una parola “vuota” e una parola “piena”. Ho incontrato quasi 75mila adolescenti e, quando mi ritrovo ad avere di fronte ragazzi che vivono già il tema della diagnosi e magari chiedo loro di raccontarsi, lo fanno proprio a partire dalla loro diagnosi. Io gli dico che non fanno “depressione” di nome e “bipolare” di cognome, “disturbo” di nome e “alimentare” di cognome. La medicina e la scienza devono mettere l’individuo in caselle per poterlo associare ad una serie di cure e di contromosse, ma deve esserci un lavoro che precede e l’accompagni fatto di parole “piene”. La causa del disturbo psichico è sempre, secondo me, un rapporto dell’uomo con la propria psiche e la propria natura, ma anche in termini universali della natura dell’uomo con se stesso perché poi è proprio la natura che dovrebbe porre l’uomo consapevole di fronte a certe domande. E qual è la lingua che quelle domande le ha sempre vissute, sdoganate, rese politiche? È proprio la letteratura, la poesia. Io mi sono innamorato della poesia perché trasforma quei temi che mi addoloravano e che ancora oggi mi addolorano in bellezza stilistica, in bellezza formale, sa dare un nome al di là della parola vuota della diagnosi. Queste lingue millenarie dell’umanesimo non devono vivere una sorta di conflittualità, di competizione; credo che viviamo in un momento storico dove sono proprio per primi i medici, gli psichiatri “per bene” che ammettono che con la sola parola psichiatrica l’uomo non si salva, perché l’uomo ha bisogno di parole “vuote” e di parole “pienissime” come quelle della poesia.
Sia nel romanzo, sia in altre tue prove di scrittura, dalle tue poesie ai tuoi articoli – uno fra tanti è il reportage pubblicato sul Corriere della sera dal titolo “Negli occhi dei pazzi: viaggio nei luoghi della malattia mentale” – percorri e tematizzi non solo il tuo vissuto e le tue sofferenze, ma anche quello degli altri. Che differenza c’è fra il raccontare il proprio percorso e quello degli altri?
Quella settimana TSO è stata una scuola di vita e una scuola di scrittura perché, assieme all’esperienza che feci successivamente anche se il racconto uscì prima, ovvero quella dell’ospedale pediatrico del Bambino Gesù, ha estroverso lo sguardo dello scrittore e del poeta e questo è stato un patrimonio fondamentale che ho ricevuto dal destino perché ho sempre concepito il dolore in una dimensione mai individuale. Oggi si spinge molto ad individualizzare tutto anche a partire dalle patologie; io posso capire che esista l’uomo più o meno fragile e dotato di capacità di convivenza con certi temi, ma proprio questi temi dovrebbero far parte dell’umanità. Parlare di diritti, di libertà, di diritto alla cura, ma anche di morte, di tempo… l’uomo ha sempre fatto di questi temi un terreno comune e credo che sia compito dello scrittore, quand’egli parte dalla propria biografia o quando passa attraverso l’invenzione, rendere l’esperienza individuale universale. Lo scrittore sa trovare quegli elementi archetipici e assieme assolutamente attuali rispetto ad un’epoca e rappresentare anche chi non potrebbe parlare. La bellezza non è tanto scrivere di sé ma farlo a nome di tutti quelli che vivono la stessa esperienza e non possono scrivere. Questo dal Bambino Gesù in poi è stata la mia intenzione di scrittura. L’esperienza di questi cinque degenti – i compagni di stanza di Daniele – racconta l’esperienza di moltissime persone finite in TSO, di tutti coloro che chiedono di essere raccontati.
In seguito all’incontro abbiamo deciso di dare spazio anche alle voci delle allieve del Liceo di Lugano 1, chiedendo loro di cambiare per un attimo ruolo da intervistatrici a intervistate. Queste sono le riflessioni di Caterina, Greta, Francesca e Matilde.
Che emozioni avete provato in corso di lettura? Vi rivedete in qualche modo nel personaggio di Daniele o lo trovate completamente distante da voi?
È difficile dire da una parte che mi sono rivista in questo personaggio perché il sentimento o malattia che descrive Daniele è molto personale e sarebbe improprio forse definirlo il nostro stesso dolore, tuttavia nella lettura mi sono rivista e ho trovato sottile il modo di raccontare un sentimento così complesso proprio perché al limite tra una malattia e una sensazione puramente umana che non va considerata come qualcosa da diagnosticare. È stato molto bravo a riuscire a restituire questo sentimento al lettore e a descriverlo nel modo più accessibile possibile.
Il personaggio di Daniele parla delle crisi di senso che proviamo tutti noi per cui se c’è un abisso devo toccarlo e se c’è una vetta devo raggiungerla; è una sensazione comune a tutti in quanto fa parte dell’adolescenza. Questo sentimento è talmente universale che non rende questa storia lontana da noi anche se è ambientata negli anni ’90.
Ripensando agli adulti presenti nel romanzo – in particolare le figure dei medici – e nelle vostre vite, che ruolo deve o dovrebbe incarnare l’adulto nel gestire i vostri dubbi e le vostre emozioni?
Ci sono tanti adulti che credono nel potenziale dei giovani e nella salvezza reciproca. Noi tendiamo ad avere forse un atteggiamento difensivo nei confronti degli adulti perché forse a volte viene utilizzato questo tono un po’ paternalistico, attraverso il quale ci sentiamo giudicati ed è un peccato perché un adulto è una persona che ha un’esperienza maggiore della nostra per certi versi e, secondo me, un percorso di crescita con un adulto funziona solo se c’è apertura da entrambe le parti e la cosa che mi ha colpito di questo incontro con Mencarelli è proprio il fatto che lui accogliesse molto le nostre domande e le nostre riflessioni, nonostante le età distanti.
A noi di Chiassoletteraria non resta che augurare a queste ragazze e a tutti voi un percorso pieno di parole “piene” con le quali salvarvi.