di Mara Travella
Scrivere per rispondere alle questioni esistenziali, scrivere per capire quale caffè mi sarebbe piaciuto bere. Jón Kalman Stefánsson ha un rapporto profondo con la sua scrittura, con la letteratura, con i suoi personaggi che gli sfuggono tra le mani – che prendono decisioni autonome, che escono a fumarsi una sigaretta o che vengono tagliati fuori nella stratificazione delle storie – con cui intrattiene un dialogo continuo e costante.
È stata un’inaugurazione poetica, quella di venerdì 13 maggio. In dialogo con Silvia Cosimini, l’autore islandese ha scandagliato i temi delle sue opere senza sbottonarsi troppo sulla sua – per tornare sull’aggettivo che ho usato per definire l’atmosfera della serata inaugurale – poetica. E questo nel senso che, interrogato sull’origine del suo stile, Stefánsson ha detto trattarsi di una commistione di intuizioni, come un incantesimo, o come l’amore, qualcosa che accade senza spiegazione, e di cui è difficile parlare perché è sempre sfuggente, inspiegabile. Stefánsson sceglie la letteratura per interrogarsi, scavare nella vita, e la pagina bianca per rispondere alle domande esistenziali del mondo.
L’Islanda, circondata dal mare, un’isola ovviamente «impensabile senza il suo mare», un «mare che dà, e un mare che toglie». Di fronte al paesaggio elvetico Steffansón dice di essere rimasto colpito da queste montagne che quasi chiudono l’orizzonte; per lui le cime respirano quando gli alberi smettono di crescervi sopra. Quando parla della natura il discorso dell’autore si dischiude, lasciando filtrare la profonda contemplazione che ha per l’universo. Come alcune persone che popolano i suoi romanzi, così anche lui si è sempre soffermato ad alzare lo sguardo, sorprendendosi spesso, per altro, che anche gli altri non facessero la stessa cosa. E di qui il sogno infantile di voler diventare astronomo, se non fosse poi che la letteratura, i libri, sono diventati le sue stelle e il suo cielo, il suo modo di interrogare «la luce dietro le stelle».
Le domande attente e puntuali di Cosimini hanno attraversato numerosi fil rouge che percorrono la produzione stefanssoniana: la presenza dei porti, del mare, del cielo, l’importanza della letteratura o ancora quella dell’amore, solo per citarne alcuni. Nelle parole dell’autore torna spesso la riflessione sulla morte, sull’importanza di esplorare, di allargare il proprio sguardo oltre il confine e di utilizzare la letteratura come bussola per orientarsi, accettando che ci sarà sempre qualcosa che ci sfugge, poiché (afferma impassibile): «Se la capisci fino in fondo (la vita) tanto vale che tu muoia» o ancora «scrivo per combattere la morte».
Interrogato sulla trama del suo futuro romanzo l’ospite inaugurale, impassibile e divertito, risponde di non poter e di non sapere riassumere i propri testi, poiché dovrebbe prendersi l’intero tempo della scrittura (ossia, poniamo, un anno e mezzo) per poter spiegare cosa accade tra le sue pagine. Si intuisce seguendo la discussione che l’occhio attento della sua scrittura, coinvolge tanto i vasti spazi e le questioni esistenziali, quanto i piccoli dettagli delle vite normali, della banalità dei gesti quotidiani. La memoria ha un ruolo centrale: «non bisogna ricordare soltanto la vita delle altre persone» dice «ma anche la propria, di vita, poiché ci sono tantissimi ricordi che svaniscono, di persone care, di amici e credo che sarebbe una cosa bellissima se tutti tenessero un diario della propria vita: perché se tu ti ricordi la tua storia, le persone che hanno popolato la tua vita, è un modo per riconsegnare un senso alle loro vite, e per combattere la morte».
Su una cosa l’autore però è certo, che in Paradiso si parla islandese, e per questo tutti dovremmo studiarlo; interrogato però sulla sua voce, risponde: «la mia voce viene dal diavolo».