Testimonianza raccolta, rielaborata e sottoposta per correzione e autorizzazione a Ismail (nome di fantasia), giovane richiedente l’asilo minorenne non accompagnato o semplicemente un essere umano.
Il mio nome è Ismail. Non è il mio vero nome. Non è per non essere riconosciuto che non ti dico il mio nome, ma perché il nome non conta. O al massimo conta per me. La mia storia è la stessa di migliaia di ragazzi che lasciano il proprio paese in cerca di un futuro. Neanche migliore, un futuro e basta. Pensi che la mia storia sia interessante? Se lo pensi allora te la racconto.
Sono della città di G., in Somalia. Abitavo in una famiglia normale, né ricca, né povera. Alla fine delle scuole medie o di quelle che voi chiamate così, mi sono reso conto che lì non avrei potuto vivere. La città era in mano a bande rivali, la sera non si poteva uscire, rischiavi la vita a ogni angolo. I rapimenti erano frequenti, così come le richieste di riscatto che svenavano intere famiglie. O almeno le più fortunate che potevano permettersi di pagare. Non lontano da dove abitavo era poi in corso una guerra. Decisi di partire allora per la Libia. Senza dire niente ai miei genitori e senza soldi. Ci arrivai dopo 3 settimane. Non avendo soldi li chiesero ai miei genitori, che chiaramente non glieli diedero. Primo perché erano contrari alla mia partenza e secondo perché non li avevano neanche. Allora mi picchiarono. Nel campo profughi, un vero e proprio carcere a cielo aperto, c’era gente davvero cattiva. Che ti picchiava solo perché gli andava di farlo. Io cercavo di non farmi vedere e così prendevo meno botte di altri. Per le donne era ancora più dura. Ci restai 6 mesi. Poi per fortuna riuscii a scappare a Tripoli. Lì vi abitai per quasi un anno e cercai di restare invisibile. Anche perché è una grande città e nessuno fa caso a te se sai come prenderla. Attraverso dei lavoretti riuscii anche a mettere da parte l’equivalente di 1500 euro. Era la somma che ti chiedevano per l’attraversata del mare in gommone. La prima volta che ci provai ci arrestarono subito. Dovetti allora ricominciare da capo. Ci riprovai una seconda volta dopo altri sei mesi. Mi chiedi se avevo paura del viaggio? Sino al momento della partenza no. Quando poi giunge il momento di salire sul canotto cerchi solo di non pensare più a niente. Anche se è impossibile, perché la notte non riesci a dormire dai pensieri che vanno in tutte le direzioni. Sul gommone c’erano una settantina di persone: uomini, donne, giovani e bambini. Il pilota non era un trafficante e non era neanche un pilota. Era uno di noi. Gli avevano insegnato a condurre il gommone in poco tempo e poi gli hanno dato in mano il timone. Non avevamo una bussola, né una mappa e solo poca benzina. Al secondo giorno, la benzina finì e allora cominciammo ad andare alla deriva. Ognuno aveva una bottiglietta d’acqua che finì ancora prima della benzina. In quei tre giorni e tre notti, morirono tre persone, non so di cosa. La sera prima erano vive e poi il giorno dopo no. Uno era un mio amico. Amico per come possono esserlo due profughi. Con un piede di qui e uno di là. Ormai non avevamo più forze… neanche per sperare. Il caldo era soffocante e la sete grande come il mare che non potevamo bere. Poi a un certo punto fummo avvistati da una nave. Non so se era della polizia o una nave mercantile. Di quella nave mi ricordo solo che aveva le fiancate di colore rosso e che si chiamava “Napoli”. E poi ricordo le braccia che mi afferrarono e la voce che mi diceva di stare tranquillo. Allora potei finalmente chiudere gli occhi e dormire. Non ricordo altro. Poi dall’Italia arrivai in Svizzera e quindi al centro di Paradiso. Ora lavoro come aiuto cucina in una casa anziani. Ma questa è ancora un’altra storia. Se pensi che quello che ti ho raccontato interessi a qualcuno allora te la lascio raccontare, anche se le cose peggiori ho cercato di non raccontartele proprio tutte. Io oggi voglio solo guardare avanti e cercare di farmi una vita che valga la pena davvero di essere vissuta.