di Mara Travella
«I capelli nella diaspora africana sono un aspetto molto forte: sia per una rappresentazione positiva e valorizzante, sia per il contrario, un pregiudizio negativo, una stereotipizzazione» ha ricordato Prisca Agustoni, poeta e insegnante, presentando Djamilia Pereira De Almeida e in particolare riferendosi al suo primo libro in uscita in Italia: Questi capelli (Roma, La Nuova frontiera, 2022, Traduzione di Giorgio de Marchis e Marta Silvetti) [tit. orig.: Esse Cabelo, 2015], presentato a Chiassoletteraria sabato 14 maggio.
Di origini angolane e cresciuta in Portogallo, Djamilia Pereira De Almeida è stata ospite al festival per un incontro – seppur virtuale – denso e pieno di spunti di riflessione. Una delle frasi che più hanno colpito di questo dialogo sull’opera dell’autrice è stato quando Pereira De Almeida ha detto del suo bisogno di scrivere questo primo libro, apparso nel 2015, anche per «riconciliarsi con il proprio corpo», entrando a far parte di una collettività che levava la voce su un tema identitario forte e in parte trascurato.
Avete presente la protagonista di Americanah (Einaudi, 2013), Ifemelu, e come tutto inizia nel romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie? Lei si sta recando in un salone per farsi le treccine e – nell’incipit del libro – si lamenta del fatto che a Princeton non esistano parrucchiere per i capelli di donne nere; solo un segnale evidente di una società (nel suo caso quella americana) che, nonostante fatichi ad accettarlo, ghettizza, esclude, non considera i bisogni delle persone nere. È partita proprio da questo elemento, così evidente e così apparentemente superficiale – i capelli –, anche Pereira De Almeida per il suo esordio narrativo, scritto durante gli anni dell’Università. Ha scritto una storia che è quella che lei avrebbe voluto leggere, ha intrecciato nel suo racconto più realtà culturali e geografiche, narrando di un transito tra «Angola e Portogallo. Africa e Europa. Un transito atlantico che è un transito che marca la mia vita e la vita del personaggio raccontato nel libro, Mila».
Anche dal punto di vista stilistico il romanzo è stato accolto dalla critica e definito ibrido, non per il suo essere spazialmente tra due mondi, quello del continente africano e quello europeo, ma per aver introdotto una scrittura molto vicina a quella saggistica. Forse perché – come ha spiegato Pereira De Almeida – dopo tanti anni all’interno dell’Università il primo tentativo di avvicinarsi alla finzione ha dato come risultato il portarsi con sé un tipo di scrittura diversa, influenzata dalle letture accademiche. Ma l’autrice ha anche voluto sottolineare un altro aspetto:
Il filo che lega la storia sono i capelli, ma mentre lo scrivevo ho usato i capelli come motivo e pretesto per tentare di parlare in una lingua e in una narrativa, quella portoghese del Portogallo, di un personaggio femminile come Mila; volevo aprire uno spazio affinché una storia come la sua potesse essere raccontata da una donna nera. L’aspetto per me più importante in tutta questa storia è il dramma interiore di una persona che non sa da dove viene e che non sa qual è il suo posto nel mondo.
Verso la fine dell’incontro ci si è soffermati su un altro libro dell’autrice: A visão das plantas (Lisbona, Relógio D’Água Editores, 2019), di cui il pubblico ha anche avuto l’occasione di sentire un estratto in italiano, tradotto per l’occasione da Prisca Agustoni. In questo romanzo il personaggio principale – un vecchio schiavista – è un uomo contraddittorio, che ha commesso crimini orribili in passato e che si prende cura delle proprie piante con estrema devozione e amore. La scrittrice lo definisce come un uomo «solitario, odioso, con passato feroce, brutale, selvaggio, da uccisore di schiavi» e che sorprendentemente «finisce la sua vita come un giardiniere delicato, premuroso, che non prova nessun pentimento per le azioni commesse»; interrogata sul perché di questa scelta ha spiegato che presentando un personaggio mai chiamato al castigo né tantomeno al pentimento, ciò che ha voluto indagare con questo protagonista maschile è stata la possibilità di un male che non è punito. Quello che le interessava era mostrare (attraverso un narratore non giudicante, e che semplicemente descrive) quello che a volte succede anche nella vita, ossia di come la malvagità, l’errore, non sempre siano chiamati davanti alla giustizia.
E, inoltre, l’anziano del romanzo è un uomo vittima delle cose che ama: le piante sono l’ultimo senso della sua vita, e queste ultime fanno di lui uno schiavo della loro esistenza, senza che lui se ne accorga.
Le abbiamo scritto, per farle tre brevi domande.
Prima domanda, Djamilia Pereira De Alemeida. Abbiamo parlato di transiti, allora vorremmo sapere: il libro Questi capelli come ha percorso il viaggio dall’Italia al Portogallo?
È stata la casa editrice Nuova Frontiera a interessarsi al libro, per me è un onore e un’allegria enorme. Sono felicissima di arrivare, con la mia scrittura, in un paese e in una cultura che ammiro tanto.
Seconda domanda, quali sono le tue maestre e i tuoi maestri?
Tanti e diversi, tra gli altri: Robert Walser, Maria Judite de Carvalho, John Szarkowski, Maurice Blanchot, Gustave Flaubert, Machado de Assis, Clarice Lispector, Natalia Ginzburg, e molte altre e altri.
Infine, come si sente come scrittrice di fronte alle problematiche legate al genere e alle sue discriminazioni? È un problema problematizzato nella narrativa portoghese?
Sempre di più. C’è una nuova generazione di autrici e autori afro-portoghesi che portano la questione in primo piano; questo è decisivo: che siano proprio loro a raccontare la loro storia, senza intermediari o portavoce.