di Mara Travella
La giornata di sabato è iniziata con l’incontro dedicato all’autrice Alessandra Sarchi, e in particolare alla sua ultima pubblicazione “Il dono di Antonia” (Einaudi, 2020). L’incontro è stato moderato dal poeta e insegnante Massimo Gezzi e con ospite il Dr. Mattia Lepori – responsabile della rivista Medical Humanities.
L’uovo in copertina dell’edizione Einaudi indica subito, sulla soglia del libro, qual è il ‘dono’ di cui si tratta in questo romanzo: un ovulo. Antonia, la protagonista, è infatti madre di un figlio-non-figlio, figlio biologico ma cresciuto dall’amica Myrtha negli Stati Uniti, frutto di un gesto compiuto 26 anni prima e di cui la protagonista del romanzo sembra non volersi ricordare.
La narrazione del ritorno di Jessie verso Antonia – un percorso ‘al contrario’, come ha evidenziato dal Dr. Lepori – a Bologna, per riconoscerla e riconoscersi, mette in campo una serie di temi legati alla famiglia, all’identità, alla maternità e al corpo.
Di che «grado di genitorialità» si può parlare quando c’è un figlio cresciuto da un’altra madre? Cosa implica questo nell’identità della figlia o del figlio (se implica qualcosa)? Alessandra Sarchi ha svelato il lavoro di ricerca dietro la stesura di questo romanzo, l’interrogarsi su quali confini vogliamo porre al concetto di famiglia e su quali siano i ruoli predefiniti, in particolare per le donne, all’interno di questo «luogo di conflitto», troppo spesso isolato dalla comunità.
Il libro di Sarchi avvicina temi quantomai caldi nel dibattito contemporaneo inerenti la procreazione assistita, spesso osservata attraverso la lente tecnica (di nuovo Lepori) e troppo poco attraverso quella letteraria e anche filosofica.
Dopo l’incontro abbiamo incontrato l’autrice per qualche domanda.
La prima domanda verte sul ruolo dell’arte in questo romanzo. Nelle pagine si parla di un dipinto di Piero Della Francesca – di nuovo un regalo fatto da Antonia a Myrtha –: in che modo quest’immagine ha suggestionato la scrittura?
In realtà ho pensato in corso d’opera alla pala di Piero Della Francesca, che si trova alla Pinacoteca di Brera e che mi ha sempre colpito perché è una Madonna, circondata dagli angeli e dai santi con il mecenateFederico Da Montefeltro. C’è un uovo che pende sul capo di Maria, all’interno di una conchiglia. Ad un certo punto, mentre scrivevo il romanzo – perché io ho una formazione da storica dell’arte, e tendo a pensare per immagini – mi è venuto in mente il dipinto e la sua simbolicità particolare. Da una parte c’è la conchiglia che è un simbolo di nascita e di rinascita, fin dall’arte pagana; poi c’è l’uovo, simbolo della vita, che è molto incombente sul capo di Maria. Significa il suo destino di madre, e l’uovo è simbolo di forza ma anche di fragilità, poiché se non lo curi non si schiude. E poi c’è il bambino che è in una posizione precaria, sembra che stia per cadere, aspetto che mi ha sempre molto inquietato. La madre non guarda il bambino e il bambino sembra un po’ lasciato a se stesso, sembra che stia per cadere ai nostri piedi. Mi sembrava che fosse un quadro in cui il pittore si è reso conto di quanto la maternità sia caricata di valori e di possiblità ambivalenti. C’è potere da una parte, ruolo della madre, costrizione dell’essere madre, e solo madre. Tutti questi elementi mi sembravano ben espressi nel dipinto e sono gli elementi intorno ai quali io ho costruito la narrazione.
L’atto di donare è un altro tema che affronti in queste pagine, un gesto che è sembra sempre essere ambivalente. Ce ne vuole parlare?
Mi interessa molto la pratica del dono che è stata tanto studiata dagli antropologi, come da Lévy Strauss, ad esempio. È davvero una delle modalità che gli uomini hanno trovato per stringere dei vincoli. Non è solo un atto di generosità, è un atto che crea un vincolo: doni sperando di rimanere nella vita, nella memoria della persona alla quale hai donato. Lo vediamo studiando le usanze dei popoli antichi, l’ospite arrivava donando e riceveva dei doni da chi lo ospitava, era una pratica per consolidare dei legami.
Un’ultima domanda sui due personaggi. Jessie è l’unico personaggio maschile di questa storia. Alla fine del romanzo s’incontrano i due figli – Anna e Jessie – e lì hai deciso di interrompere il romanzo. Come mai?
Se fossi andata avanti temevo di farla diventare una storia sentimentale, stucchevole. Non so cosa fanno, voglio lasciare al lettore o alla lettrice la disponibilità di immaginare. Scoprire di avere un fratello o una sorella è qualcosa che può anche sconvolgere. Che cosa si fa di queste relazioni? Questo è il grande interrogativo. Noi cresciamo con dei fratelli e con delle sorelle ma poi diventiamo grandi e i legami si allentano. Come si vivono questi legami? È un legame di parità, di comunanza ma anche di distanza. Anche questo è un tema interessante. Per ritornare alla cultura antica, l’Italia è un paese fondato sui fratelli: Roma è stata fondata da due fratelli – poi uno uccide l’altro – e anche nella Bibbia c’è molto di questo, come Caino che uccide Abele. La fratellanza o la sorellanza sono temi in cui c’è la comunanza ma anche la competizione. Mi sono fermata lì perché non so cosa sarebbe accaduto, e poi perché sarebbe un altro romanzo.