di Arianna Limoncello
Quando nacqui mia madre
mi fece un dono antichissimo,
il dono dell’indovino Tiresia:
mutare sesso una volta nella vita.
Giovanna Cristina Vivinetto ha infranto il tabù, informa la fascetta promozionale apposta alla sua raccolta poetica Dolore minimo, edita da Intelinea nel 2018. Si tratta infatti del primo libro pubblicato in Italia a parlare del tema della transessualità, declinato in settanta poesie che ripercorrono la vicenda autobiografica della poeta, la storia della sua transizione. Nell’incontro mediato da Riccardo Frolloni e tenutosi al Cinema Teatro questo pomeriggio, Giovanna ripercorre le tappe della nascita della sua opera e riflette sulla sua visione di poesia. L’incontro esordisce partendo dal sopracitato concetto di tabù: «Ho avuto modo di capire che i pregiudizi esistono fino a un certo punto, vengono meno quando se ne parla con cognizione di causa. I tabù esistono fino a quando noi decidiamo che esistono, perché ci fanno comodo, permettono di stabilire gerarchie» sostiene Vivinetto, facendo presente che «In letteratura non dovrebbero esisterei tabù». La letteratura si carica quindi per la poeta di una forte valenza civile e sociale: «il mio intento era rendere comprensibile la mia condizione a molti, cercare di veicolare messaggi universali, creare una parola comune». È proprio sul binomio di esperienza individuale e collettiva che si impernia il libro di Vivinetto, una comunicazione bidirezionale, una possibilità di dialogo che emerge già nello sguardo fra i due profili che compaiono sulla copertina del volume. Perché il libro di Vivinetto parte da un’esperienza soggettiva e autobiografica ma diventa uno specchio che riflette le storie altrui: «Ogni scritto ha valore civile e politico, perché scrivere vuol dire posizionarsi, avere uno sguardo privilegiato sul mondo. Tutti gli scritti hanno un impatto civile nella misura in cui incidono sul sociale. Tutti noi mettiamo in atto delle transizioni nella vita, abbiamo un sostrato che ci accumuna. La poesia ci scopre uniti in profondità.» La poesia per Vivinetto diventa quindi occasione di riconoscimento reciproco: «La preponderanza di un io che si riflette attraverso un noi, che prende la parola e che si attesta in quanto voce poetica».
In Dolore minimo si srotola, poesia dopo poesia, la storia della transizione di Giovanna; i suoi versi, così viscerali e al contempo così sapientemente architettati raccontano della continuità che fa da denominatore comune alla sua storia: «Io sono sempre la persona che ero prima, mi sono portata dietro le cose buone e mi batto per questa continuità. Di solito quello che accade prima viene cancellato, provoca dolore, ma l’obiettivo sta nel capire che questo dolore ci appartiene. C’è sempre una porticina aperta sul mio passato che mi permette di guardarvi con tanto affetto. Mi ha permesso di capirmi, accettarmi e in qualche modo anche perdonarmi». Il dolore che svetta nel titolo e che costituisce il cuore della raccolta viene riabilitato quindi come presupposto per (ri)conoscere se stessi e per accettarsi.
Dopo l’incontro, l’autrice ci ha concesso un po’ del suo tempo per rispondere a qualche domanda.
Il tuo libro riflette sul rapporto fra una dimensione di individualità e una dimensione di collettività, tu stessa definisci la tua trasformazione uno specchio nel quale si possono riconoscere tutti. A livello stilistico, questa immediatezza di linguaggio che tu ricerchi può essere letta in questo senso?
Sicuramente c’è una necessità di risultare comprensibile a più persone possibile. Quando ho iniziato a leggere la poesia, soprattutto la poesia contemporanea, mi chiedevo come mai fosse così complessa. Purtroppo molta poesia contemporanea è volutamente complessa, che richiede analisi e letture su piani differenti. Io avevo il modello della Szymborska, esempio di immediatezza e intelligibilità: ritengo importante cercare di fare poesia mirando a questa comprensibilità. Se noi ci facciamo capire, più persone potranno immedesimarsi in quanto scriviamo. L’individuo si realizza solo quando vi è una comunità con cui interagisce e viceversa, sono due entità che si pongono in correlazione. Spesso invece accade che la poesia, anche per come viene concepito storicamente il poeta, sia un oggetto di interpretazione e analisi; nella poesia, a mio avviso, non vi è nulla da interpretare, la poesia ti arriva. Noi leggiamo Dante e magari, senza nemmeno capirlo inizialmente, ci arriva a prescindere… e parliamo di un autore del 1200. Tanta poesia contemporanea dovrebbe mirare a questo: non a semplificare ma ad essere comprensibile.
Il tuo libro parla di un tema che in Italia non era stato ancora affrontato in questa veste poetica. Che rapporto vi è tra il parlare di un determinato argomento e il viverlo in prima persona?
Tutta la storia delle minoranze, in Italia e nel mondo, dimostra che esse sono state raccontate da altri. A parlare di donne nere sono stati studiosi accademici bianchi in contesti universitari, a parlare degli omosessuali sono state persone eterosessuali; anche il fatto che gli esponenti politici dell’UE siano prevalentemtente maschi ci fa capire qualcosa e che siano loro ad interpretare i diritti e i bisogni delle donne fa un po’ sorridere. La soluzione è da ricercare nella via di mezzo: mirare a dare voce a chi è coinvolto in quel meccanismo, proprio per far capire il grado del bisogno in sé. Non si tratta tanto di aiutare, ma di dare la parola. Questo vale per tutte le minoranze. Ormai la comunità omosessuale ha una voce ben solida perché nel tempo ha trovato la sua strada, quella transessuale un po’ meno in quanto è una realtà meno conosciuta. Solamente negli ultimi anni le persone transessuali stanno uscendo allo scoperto, dimostrando che la loro esistenza in realtà è come quella di tante altre persone; ci sono gli influencer transessuali che collezionano milioni di followers ed è un buon messaggio perché serve a normalizzare persone che di fatto sono normali ma vengono percepite come strane. Il fatto che io prendessi la parola è stato un caso: ho voluto raccontare la mia vicenda. L’importanza di quanto ho fatto può andare in questa direzione: nel far sì che persone con un vissuto simile possano avere il coraggio di farsi avanti; purtroppo non è il caso di molti in quanto queste persone attuano spesso una censura personale e si domandano l’utilità di parlare di qualcosa che riguarda solo loro. Ma non riguarda solo loro in prima persona, riguarda tutti perché sono tematiche sociali, civili, politiche che poi alla fin fine ci coinvolgono in un modo o nell’altro.
La tua raccolta appare allo stesso tempo viscerale e studiata. Che ruolo hanno avuto queste due componenti di ispirazione e rimaneggiamento nel processo creativo da cui è nata Dolore minimo?
Io credo che le due cose siano venute insieme in maniera spontanea, per questo dico che se potessi scrivere di nuovo un libro del genere sarei fortunatissima. È stato un po’ un azzardo, nel mio inconscio era forse già tutto previsto ma quando ho scritto queste poesie erano davvero tante: ne ho scartate moltissime, ne ho riscritte altrettante, e questo aspetto viscerale è emerso perché forse era il momento giusto in cui emergesse. Riflettevo da anni su queste poesie, vi è stata una prima fase in cui non dico che volessi negare quello che stavo facendo, ma volevo quasi sminuirlo, evitando di parlarne, poi col tempo mi sono chiesta perché avrei dovuto farlo. Successivamente, dandomi più libertà, sono emerse queste poesie che evidentemente già esistevano dentro di me e in seguito sono venute a galla. Sono partite sì dalle viscere e poi sono state filtrate da una logica più razionale che è quella di chi deve costruire un libro. Però è venuto tutto fuori in maniera naturale. Anche la sequenza delle poesie stesse che scrivevo è stata quella che è confluita nel testo.
Per quanto riguarda il titolo, perché il dolore è minimo?
È la constatazione di qualcosa che finisce con l’appartenerci in maniera pacifica solo quando l’abbiamo accettato. Una transizione, sia fisica che cognitiva, implica una quantità di dolore; magari tu non riesci a capirlo ma c’è. Il trucco per rendere questo dolore comprensibile è accettarlo, riconoscerlo come parte di noi stessi. In questo modo da enorme, lacerante, sconcertante qual era, diventa minimo ed è qualcosa che ci accompagna per tutta la vita. È un dolore importante, necessario, che permette di conoscerci meglio e di accettarci per quello che siamo.