di Francesca Sproccati e Alan Alpenfelt
Chi approda in una terra straniera vorrebbe immediatamente capirne i segni, il linguaggio, i costumi. Ci chiediamo l’utilità delle cose. Siamo alla ricerca di senso. Per questo, talvolta, c’è imbarazzo nello stare nel vuoto. Sul precipizio del, forse, Niente. In quel luogo dove potrebbe non esserci alcunché da scoprire. Se non, attimi di umanità.
Qui noi astronauti, possiamo ascoltare e percepire un po’ di più.
Siamo, per il bambino, uno straniero misterioso. A differenza di altri siamo capaci di andarcene dalla terra in un viaggio non ben definito, solitario. Noi e la nostra navicella appariamo per un giorno e una notte tra gli abitanti di una città di confine. Scateniamo uno strano ribaltamento dei ruoli. Chi ha sempre vissuto lì diventa alieno del suo habitat, che ora appartiene a noi stranieri, abitanti di uno spazio centrale intorno a cui orbitano le cose e gli eventi. Diventiamo gli osservatori.
Chi si affaccia agli oblò, si sta affacciando a un confine. Siamo educati a non varcare quello degli altri. La sovrastruttura di regole che evitano conflitti è allo stesso tempo messo sia in moto che in crisi, proprio da quell’oblò di un negozio che è sempre stato lì.
Un cartello indica il permesso di entrare. Un invito a rimanere e a tornare da noi quanto e quando si vuole.
Gli alieni varcano la soglia, il loro ruolo si liquefa. Portano il loro mondo fatto del loro vissuto e del loro passato dentro ad un altro. Nel luogo da dove provengono, il tempo è ciò che definisce e regolamenta, carico di significati inviolabili. La consapevolezza che questa navicella permette l’abbandono delle regole è intuibile ma velato dall’etica quotidiana.
Ad un certo punto accade. Da una balera ci trasferiamo altrove. In uno spazio senza gravità, uno spazio frammentato, fatto di particelle e molecole, in uno spazio dove il pensiero si fa gas e le emozioni luci colorate. Finalmente, eccolo lì. Un altrove. Vero. Fisico. Tangibile. Quel passaggio tra reminiscenza e ignoto.
Qui diamo valore e riconosciamo la bellezza di cose che, altrimenti, potrebbero sfuggirci. Due corpi che danzano come un corpo unico in contatto solo con la punta delle dita, il parlare con lo sguardo e piccoli cenni della testa, l’attesa, lo spazio denso e il tempo infinito dell’impaccio, la leggerezza di un ballo indossando un casco da astronauta, la sensualità di due corpi che si annusano, l’esistere sostenuto dallo sguardo dell’altro, il ricordare insieme attraverso una canzone, una bambina che scopre come ascoltare un 45 giri.
Altrove si è risucchiati da strani suoni ritrovandosi in ginocchio a collaborare con altri alieni in un arduo compito nel contribuire alla creazione di un nuovo mondo. Pezzo per pezzo, si edifica l’ignoto a partire solo da ciò che si riconosce. Questo è il limite dell’essere umano. Osserviamo, ogni avvenimento è l’immediato nella sua totalità, colmo di significato e di espressione di un casuale incontro tra – ormai divenuti – due sconosciuti.
Quegli istanti di presenza sono fondamentali per noi. Non tanto per quello che contengono ma perché sono frammenti di caduche verità che servono solo a dare senso allo scandire del nostro tempo.
Si sono presentate incertezze e dubbi. Ostacoli tecnici e mentali, incontri che mettono in difficoltà. È un vero viaggio. Con tutte le sue problematiche e gli attimi straordinari inaspettati. La meraviglia è che il luogo fisico dove siamo inseriti non si sposta di un millimetro. Siamo spazi e personaggi sconosciuti in un piccolo quartiere di un’altrettanto piccola cittadina di confine. C’è chi si prende cura di noi. Il cibo, collante sociale, diventa pretesto e generatore di premura nei confronti dell’Altro.
Quando l’alieno se ne va, se ne va anche il suo tocco che si coagula in un flebile segnale intermittente in dissolvenza. Noi stranieri-astronauti rimaniamo, più a lungo anche se per poco. Come la vita, che inizia e finisce, le cose che stanno in mezzo acquisiscono per brevi attimi dei significati, terminando a loro volta dentro il grande vortice della ciclicità senza meta.