Di Alessandro Moro
Attraversare il Mondo Nuovo significa anche fare i conti con una realtà spesso incompresa o sottovalutata poiché invisibile e sotterranea, ma che può presentarsi, se riportata in superficie dalla scrittura, come un paesaggio devastato: la mente umana, sede in alcune persone di un conflitto silenzioso ma reale.
Nell’incontro di questa sera in compagnia della giornalista Francesca Mandelli e del dott. Mattia Lepori, Andrea Pomella presenta il suo libro intitolato L’uomo che trema (2018) come un «reportage dal teatro di guerra della mia mente». Un reportage quindi, un lucido lavoro di ricostruzione e restituzione, condotto a partire della propria esperienza personale, di ciò che si vive durante un picco depressivo. Si tratta quindi di una testimonianza diretta eccezionale, che nasce dall’urgenza di mostrare a chi non ha mai combattuto contro questo male senza volto quali siano le implicazioni della malattia: «Io volevo raccontare cosa vede un depresso, quell’assenza, quell’abbattimento, quel bianco, perché per me la depressione ha un colore bianco».
Malinconia e tristezza, ci spiega Andra Pomella chiarendo eventuali equivoci, sono stati interiori che pertengono al dominio dei sentimenti. La depressione è invece tutt’altra cosa, nella misura in cui chi soffre di depressione vive in un mondo assiderato, in cui le emozioni non trovano più alcuna superficie su cui attecchire («il depresso non prova nulla»). La malattia porta a un eccesso di lucidità, a uno sguardo penetrante al punto da deformare il mondo circostante. Pomella per spiegarsi usa un termine di paragone estremamente efficace, accostando lo sguardo del depresso alla pittura iperrealista, in cui la restituzione dettagliatissima e vivida della realtà ha il paradossale effetto di rendere quest’ultima lontana, sinistra e inquietante:«un depresso vede la realtà in una maniera iperlucida, iperconsapevole, sfrondata da tutta una serie di artifici, un po’ come un pittore iperrealista (…), che aggiunge dettagli ulteriori alla realtà. Ma il risultato è qualcosa che è quanto più possibile lontano dalla realtà».
Dopo l’incontro l’autore ha gentilmente risposto ad alcune nostre domande.
Il tema del festival è il Mondo Nuovo. Cosa è per lei questo mondo?
Per me il mondo nuovo è una prospettiva di guarigione. È quello il mondo nuovo: un mondo vero. Per me il mondo è sempre nuovo, diventa vecchio dal momento in cui sprofondo nella malattia, piombo di nuovo con la mia psiche all’interno di un mondo irreale, che non è né nuovo né vecchio: semplicemente non è. Il mondo nuovo per me è questo: essere tutti i giorni nel bene e nel male consapevole, provare dolore e provare piacere.
Per quali ragioni ha scelto di affrontare questo tema in maniera esplicitamente autobiografica, senza frapporre nessun filtro tra il suo vissuto e l’opera? Ci vuole coraggio, come persona e come scrittore.
È una scelta legata alla mia esperienza di lettore. Mi sono reso conto che la memorialistica ha una capacità di penetrare la realtà contemporanea superiore rispetto alla fiction pura. Il romanzo di invenzione in questo momento soffre un po’ di stanchezza. Questo non significa che il romanzo è morto, perché è una vecchia discussione che ritorna spesso. Il fatto di leggere scrittori capaci di non tirare il freno a mano mai, di essere spietati principalmente con sé stessi, mi ha fatto capire che probabilmente questa era la mia strada. Mi sembravano letture meno riuscite quelle in cui percepivo ad un certo punto una sorta di timore da parte dell’autore a mettersi completamente in gioco. Dal momento in cui ho cominciato a scrivere su di me, mi sono prefisso di non avere pietà per me stesso e andare sempre a fondo, senza pensare soprattutto alle conseguenze materiali di quello che scrivevo.
In un passaggio del libro scrive: «La malattia in me, quindi, originariamente si è manifestata nella sfera del linguaggio. Mi autocensuravo, sopprimevo dal mio vocabolario alcune parole, parole che se pronunciate ad alta voce mi si conficcavano nella pelle come spine […]. Papà era ovviamente la più insopportabile di tutte». Può approfondire questo meccanismo di rimozione del linguaggio e le sue ricadute sulla tua identità di scrittore?
Io do molto valore alla parola, che sia scritta o pronunciata a voce. Considero ‘patria’ la parola, non considero patria un territorio o un insieme di ideali. È il luogo in cui mi sento più a mio agio e a casa. L’aver notato come la malattia ha smantellato dentro di me delle parole, è stato come subire un terremoto, uno di quegli eventi catastrofici che ti portano via un pezzo di casa. Ho vissuto il fatto di averla recuperata attraverso la mia attività di scrittore come una sorte di rivincita nei confronti della malattia stessa.
L’ultima domanda riguarda il rapporto tra la depressione e alcuni fattori esterni, contingenti: crede che ci sia un rapporto tra la malattia e le coordinate storiche in cui viviamo?
C’è chi dice che è una malattia tipicamente occidentale, cioè una malattia del benessere, delle società che stanno bene. Parlavo poco prima di iniziare la presentazione con Mattia Lepori, che ha fatto un’esperienza in Africa, e mi raccontava invece che anche in quei luoghi le cose non stanno affatto come noi pensiamo. È quindi principalmente una malattia dell’uomo, non è una malattia delle società. Ma lo stile di vita, i contesti familiari e lavorativi in cui viviamo, l’imposizione di certi clichésociali hanno la loro influenza come ce l’ha qualsiasi cosa. Un depresso ha un’ipersensibilità rispetto al mondo tale per cui tutto lo tocca, anche delle cose che apparentemente non hanno alcun significato per una persona cosiddetta sana. Guardando lo spigolo di un palazzo da depresso, io potrei trovare all’interno di quella geometria una violenza senza fine. È un discorso abbastanza difficile da capire per chi non ha mai sofferto di depressione, ma è così. Figuriamoci quindi certi contesti sociali che tendono a svilire l’identità, la personalità e il talento, soprattutto se pensiamo al mondo del lavoro così come lo viviamo noi oggi.