di Mara Travella
Durante Chiassoletteraria – chi ha potuto scorrere il ricco programma di quest’anno se ne sarà accorto – ci sono occasioni di scambio pensate per una platea composta (principalmente, ma non solo) da allieve e allievi delle scuole. Una formula che funziona poiché crea nuove interazioni fra autori ospiti e un pubblico giovane: questa mattina è stato il turno di Thomas Meyer, autore di Non tutte le sciagure vengono dal cielo (trad. di F. Filice, Rovereto, Keller, 2015), intervistato dalle classi della scuola media di Chiasso. Accanto allo scrittore svizzero sul palco del Cinema Teatro vi erano il traduttore Franco Filice e la giornalista Cristina Trezzini. Non tutte le sciagure vengono dal cielo ha come protagonista Motti, un giovane ebreo di Zurigo che si trova a fare i conti con la vita, e in particolare con gli incontri combinati – a scadenza regolare – cui la madre lo costringe: che ormai suo figlio è in età di matrimonio, e sembra non si possa più aspettare oltre.
Un romanzo che – con lo stile ironico e sferzante che subito capiamo essere un tratto tipico dello scrittore svizzero – tratta dei limiti famigliari, di come valicarli e di come smussarli, quando c’è chi, ancora, vorrebbe indicarci la retta via. Il matrimonio con una ragazza scelta dalla madre è poi un pretesto per parlare delle scelte dell’età adulta, di come oltre allo schema preconfezionato si possa sempre scegliere quello costruito con le proprie aspirazioni (e, perché no, con i propri sbagli).
La curiosità dei relatori è in primis linguistica, legata alla traduzione di un romanzo che mescola al tedesco l’hiddysh, lingua parlata dagli ebrei ortodossi, di cui Meyer ha anche fornito alcune video-lezioni sul suo sito (https://www.thomasmeyer.ch/videos/). È una lingua molto vicina allo schweizerdeutsch e, sebbene in tedesco sia molto comprensibile, in italiano si è preferito lasciare le parole in lingua originale – come Channukkah, Matzah, Pesach, Sakkut o goyete, usato per indicare i non-ebrei. Nel nostro caso, la giovane di cui il protagonista s’innamora.
Dopo questa premessa, la parola passa alle ragazze e ai ragazzi delle medie. Mani che si alzano, voci forti e dirette. Captiamo qualche domanda: «Da dove nasce l’idea del romanzo?» «Quanto ci hai messo a scrivere?», «Quando hai capito che volevi fare lo scrittore?», «Sei ebreo? E Motti sente su di sé il peso storico della Shoah?», «Ti piacciono i canederli?». Dietro, i disegni dei ragazzi danno ritmo a questi botta e risposta. C’è anche una mappa di Zurigo con i luoghi in cui è ambientato il romanzo. Le ragazze e i ragazzi sono curiosi, hanno letto, vogliono scavare nel libro e capire chi è lo scrittore che hanno davanti. Meyer un po’ si lascia scoprire: l’idea del libro è nata a partire dal nome del protagonista; non è uno che scrive dandosi dei limiti di tempo – ci sono momenti di lavoro ossessivo e altri dove ha trascurato il suo romanzo –; ha iniziato a scrivere con un approccio un po’ scanzonato, ma al tempo stesso con il passare degli anni la scrittura è diventata un bisogno; e sì, è ebreo, ma non crede che tutte le storie scritte da ebrei debbano per forza parlare della Shoah: è un peso che tutti portano e devono portare, ma non tutte le opere ebraiche devono avere, per forza, questa tematica; i canederli sono squisiti, nel libro c’è anche la ricetta.
Meyer si definisce un provocatore, ma non provoca per puro diletto – e di questo abbiamo parlato anche nella breve intervista che gli abbiamo fatto (in italiano, in tedesco, in inglese – un pastiche linguistico tutto svizzero).
Com’è andata quest’esperienza con gli allievi delle scuole?
È andata bene, la lingua è stata a tratti difficile: ho studiato un po’ di italiano a scuola ma si parlava molto veloce e capire è stato complesso, a volte. La mia idea non era di scrivere un romanzo per ragazzi, ma una storia per tutti. Non è stata una scelta, non era il mio target, inizialmente, anche se credo che per i giovani sia un romanzo molto diretto sia per lo stile che per la lingua che ho scelto, che poi riflette il mio modo di parlare. Se analizzi un libro e cerchi delle scelte, farai fatica a trovarne. Quando scrivi non fai delle scelte.
La scrittura è una cosa che possiamo, in qualche modo, pianificare?
Sì, certo, possiamo pianificare una storia, abbiamo un’idea approssimativa della storia di cui hai bisogno, altrimenti non sai in che direzione vuoi andare. Si deve decidere una direzione, una destinazione. Ma poi non sai cosa accadrà lungo la strada. Il nuovo libro ho scritto, ad esempio, alla fine mi ha sorpreso.
Quello che facciamo – nella scrittura ma nell’arte in generale – viene sempre dalla nostra esperienza di vita, sei d’accordo? Quanto c’è di Thomas Meyer in questo libro?
Sì, sono d’accordo sul fatto che tutto quello che realizziamo nell’arte provenga dalla nostra vita, è difficile lasciarla fuori. I personaggi principali parlano tutti anche della mia storia personale. Analogamente a quanto accade a Motti nel romanzo, anche io ho subito le aspettative dei miei genitori: che studiassi giurisprudenza, che diventassi avvocato. Anche il personaggio della madre Judith, forte e dominante, proviene dalla mia autobiografia. All’inizio quando la gente me lo chiedeva rispondevo: no, per niente, – perché non sono ortodosso – ma più avanti ho dovuto iniziare ad ammettere che era una specie di autobiografia. Ma non mi dà fastidio.
Del tuo libro è stata fatta anche una trasposizione cinematografica di successo, Wolkenbruch. Vuoi parlarci di come è andata?
Io ho scritto la sceneggiatura ed è stata un’esperienza completamente diversa. Fin da subito era, ovviamente, molto differente rispetto alla scrittura di un romanzo. In una sceneggiatura ci sono dialoghi e incontri, mentre nel libro puoi scrivere frasi belle, descrizioni: è completamente diverso. La cosa più difficile è stata capire che dovevo investire tutto me stesso nei dialoghi e nelle azioni perché ogni cosa che succede nel mondo interiore dei personaggi non puoi raccontarla agli spettatori. Non puoi descriverlo, devi mostrarlo, usando anche delle metafore. Se ho una discussione con te, in un libro posso parlare per dieci pagine di quali sono le mie difficoltà, ma se è un film bisogna parlare e dobbiamo far vedere tutto il conflitto che abbiamo dentro. Può essere difficile. Inoltre, generalmente lavoro da solo, non in un team – non mi piace – e per il film ho dovuto allineare la mia visione con le idee degli altri e fare dei compromessi, ma la parte della scrittura è comunque qualcosa che faccio da solo.
Ne abbiamo accennato durante l’incontro con le classi di quarta media, dove ti sei definito, in parte, un provocatore. Qual è il ruolo della provocazione nell’arte?
Non saprei dirti qual è il ruolo nell’arte, ma posso dirti che valore ha nella mia vita. Quando ti provoco voglio che tu abbia una reazione, cerco una reazione e questo è già in qualche modo proprio dell’arte. Poi quello che succede è che io voglio renderti insicuro, o voglio che tu rifletta su qualcosa, che ti smuovi, che diventi in un certo senso più intelligente. Sono tutte provocazioni. La parola «provocazione» ha in sé un cattivo retrogusto, si ha la sensazione che sia scadente, che sia un colpo basso, ma una buona provocazione è qualcosa di utile.
Quest’anno a Chiassoletteraria ci interroghiamo sul mondo, sul presente, sul passato e sul futuro. In relazione al tema «Il Nuovo Mondo», cosa puoi dirci?
Penso di essere abbastanza pessimista sul nostro futuro. Nel futuro vedo troppa plastica e non abbastanza acqua. E nessuna foresta pluviale. Proverò a parlare di questo anche nel mio prossimo libro, ma vi avverto: sarà più politico che ecologico.