Le allieve e gli allievi del Liceo di Lugano 1 hanno incontrato questa mattina la scrittrice Donatella Di Pietrantonio per un appuntamento che – come gli altri anni – vede in primo piano la voce dei giovani lettori, con le domande e le curiosità suscitate dalla lettura de l’Arminuta, romanzo con il quale la scrittrice abruzzese ha vinto il premio Campiello 2017.
«A tredici anni non conoscevo più l’altra mia madre. Salivo a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse. Sul pianerottolo mi ha accolto l’odore di fritto recente e un’attesa. La porta non voleva aprirsi, qualcuno dall’interno la scuoteva senza parole e armeggiava con la serratura».
Questo è l’incipit del romanzo: così si apre la storia della ragazzina tredicenne che viene riconsegnata – quasi fosse un oggetto – dalla famiglia adottiva a quella biologica. È la storia di una restituzione. Le pagine di un romanzo come l’Arminuta chiedono al lettore cosa voglia dire avere un grande vuoto al posto delle proprie origini, è un racconto che inizia con la non-accoglienza, con una porta che simbolicamente s’inceppa. Si tratta del ritorno non voluto in una famiglia dove non c’è spazio: né per il linguaggio affettivo né per il linguaggio non verbale. Ed è questa la ferita da cui ha origine quel senso di abbandono che la protagonista sente addosso, cucito come fosse un vestito, una seconda pelle.
La storia ha permesso di toccare diverse tematiche, in primis il legame fra identità e appartenenza, nel difficile rapporto con il la famiglia biologica. L’autrice ha spiegato che il dualismo della voce narrante (donna di trent’anni e ragazzina tredici) nasce «dalla necessità di avere un’altra voce dall’alto, perché una ragazzina di tredici anni non poteva sostenere tutta la narrazione. Prima di tutto perché quando ci sta capitando qualcosa di traumatico non riusciamo ad avere quel distacco, quell’oggettività necessaria a raccontare gli avvenimenti. E poi, perché era necessario un periodo per la elaborazione, per la trasformazione di questi eventi». Una riflessione che serve a dire come la capacità di creare una distanza fra noi e i nostri traumi, sia la chiave che ci permette di guardare alle esperienze vissute con altri occhi. Si tratta di trasformare, con le parole di Aldo Carotenuto – citate dalla scrittrice abruzzese – «”la ferita in feritoia”», ossia della «straordinaria possibilità di creare uno spazio doloroso attraverso cui possiamo guardare dentro noi stessi e conoscerci, ma anche di guardare verso gli altri e riconoscere le loro ferite».
Una delle questioni che ha trasversalmente attraversato la conferenza è stata quella legata alla lingua. Se c’è infatti una polarità fra i luoghi in cui è narrata la vicenda, l’opposizione si realizza anche sul piano linguistico, tra il dialetto abruzzese e l’italiano. A questo proposito, ossia riguardo alla creazione di una sorta di “abruzzese medio” , la scrittrice ha affermato di aver fatto «un lavorio sulla lingua […] cercando di costruire una specie di media tra i vari dialetti» e che «nessuno l’ ha accusata di tradimento, anzi: in generale diciamo che gli abruzzesi si sono sentiti gratificati per questa lingua che è ritornata un po’ alla ribalta». Così come l’Arminuta ritorna ad abitare in una casa dove c’è solo il dialetto a nominare il mondo, così la lingua familiare, dialettale, si ripresenta, bussa alla porta della narrazione, facendosi spazio, senza chiedere permesso . «Ho fatto questo lavoro» ha concluso l’autrice «perché mi piaceva dare voce a tutte quelle persone, fra cui mio padre, che fanno questo sforzo di italianizzare la loro lingua […] uno sforzo anche doloroso perché sempre accompagnato da quel senso di inferiorità di cui anch’io sono stata affetta»: un tabù linguistico e sociale, quindi, che trova il proprio superamento in quello spazio intimo e al tempo stesso universale, che è proprio della scrittura.
Alla fine dell’incontro, abbiamo avuto occasione di fare qualche domanda a Massimo Gezzi, poeta e docente, che si è occupato di accompagnare la classe nella preparazione a questo incontro.
Come mai hai scelto l’Arminuta come proposta per i tuoi allievi?
Ho trovato che fosse interessante per suscitare delle riflessioni che vanno al di là del libro. Il romanzo parla di una vicenda molto privata, ma in realtà le questioni che mette in moto sono quelle dell’identità, dell’appartenenza, del ritorno, della lingua, della famiglia: tanti temi che secondo me i ragazzi avrebbero potuto sentire vicini.
Come è stata recepita la lingua dalle tue allieve e dai tuoi allievi, qual è stato il tuo ruolo in questo?
Qualche difficoltà di lettura c’è stata, perché stiamo parlando di una regione del centro Italia degli anni ’70, con una lingua diversa. Si tratta di una regione in cui la povertà è ancora la normalità, mentre quasi tutti dei ragazzi non vivono certamente una situazione del genere, però questo credo che li abbia stimolati a capire, a mettersi nei panni dell’ Arminuta e – un po’ come succede con la grande letteratura – si sono trovati catapultati in un altro mondo e hanno superato la difficoltà linguistica. Durante la lettura le allieve e gli allievi hanno compreso la situazione sociale, complessa e stratificata, si sono affezionati; hanno capito la complessità del romanzo. Spesso i ragazzi vorrebbero una sorta di scioglimento, che tutto si risolvesse: la trama dove ricomporsi. Invece questo romanzo ha un finale aperto e pian piano hanno apprezzato anche questo, e io sono molto contento che questo progetto abbia funzionato.
Mara Travella