La sala è buia. Sul palco c’è solo una sedia. Poi, Davide Enia arriva e inizia a parlare con noi; accorcia subito la distanza fra sé e la platea, perché ha da raccontarci qualcosa di importante, di personale. A volte dice qualche frase nel suo dialetto palermitano, la “lingua della culla” che si usa per parlare di ciò che è più vicino al cuore. Il suo è un monologo fatto di istantanee – quasi fossero delle fotografie, quelle del padre che l’ha accompagnato nel suo viaggio a Lampedusa – messe una accanto all’altra, date al pubblico con gentilezza. Il silenzio, tra un’immagine e l’altra, non è solo per prendere fiato. È importante quanto la parola stessa. Anche il non detto, di fronte alla tragedia umana, parla. È suo padre, testimone silenzioso di quell’esperienza, ad averglielo insegnato. «Quello che non sappiamo ce lo raccontano i corpi» dice Enia.
È figlio della cultura del mosaico – ci dice – e inizia a parlare raccontandoci dei due naufragi che sono presenti in questa storia: quello individuale, legato alla malattia dello zio, e quello collettivo, delle persone sbarcate sull’isola di Lampedusa, e che lui era lì pronto ad accogliere – o raccogliere quando inermi si lasciavano cadere a terra.
Quando la parola orale inizia a disegnare un contorno, a metterci un’emozione dentro, uno sguardo, o il corpo galleggiante e senza vita di una persona – in quel momento in cui il teatro si manifesta nella sua profonda forza, quella di coinvolgere tutti i nostri sensi, quasi potessimo toccare le parole – capiamo che le emozioni consegnateci da Enia sono da tenere fra le mani con delicatezza, perché sono fragili, arrivano da un’esperienza profonda, toccante.
In questo spettacolo teatrale, nato dopo la pubblicazione del suo ultimo libro, intitolato Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017), l’autore palermitano porta sulla scena una storia così forte da non poter formare un corpo unico: sono appunti, capaci di aprire scorci di verità sulla reale situazione di chi vive sull’isola, come gli amici Paola e Melo, e di chi quella terra la raggiunge.
Com’è nata l’idea di far diventare il libro uno spettacolo teatrale?
Nasce dal fatto che io non ho ancora esaurito il distanziamento tra me e i fatti che mi sono accaduti. Ho bisogno di continuare a nominarli, perché non c’è distanza fra me e loro, mi hanno compenetrato in una maniera forte, squassante, potente, lancinante e anche feroce. Poi perché in qualche modo credo che sia il tema dei prossimi cinquant’anni, e bisogna parlarne.
Uno degli obbiettivi del Festival di Chiasso Letteraria è quello di portare in superficie quegli argomenti che a volte vengono dimenticati, o che si vorrebbero dimenticare – non nominare. Credi che il discorso legato all’immigrazione, agli sbarchi, sia in un certo senso tenuto nascosto, sia qualcosa di cui non si vorrebbe parlare?
Non credo sia un tema tabù. È il tema che sta muovendo la politica più becera, che strumentalizza numeri, dati, persone. Abbiamo una spaventosa discrepanza tra la sicumera con cui i politici parlano di fatti e la realtà degli stessi. Ci sono persone che ne parlano e non hanno mai visto uno sbarco, non ne sanno niente, e ne parlano unicamente per un tornaconto personale. Abbiamo sicuramente una sovraesposizione del pericolo legato alle persone che arrivano, che sono per la maggior parte dei casi disperati. Ma bisogna ricordarsi che storicamente prima queste persone portavano l’ebola, poi l’ISIS, poi qualsiasi tipo di malattia, senza un reale pericolo collegato a questo. Non si affronta mai la complessità, non ci si chiede mai: “perché queste persone scappano? Perché c’è questo spostamento? Quali sono gli interessi negli Stati da cui queste persone scappano?”. Le cause sono diverse: puoi scappare a causa di una guerra, scappi perché ti ammazzano se sei omosessuale o se parli un’altra lingua, fuggi perché se sei donna sei un giocattolo sessuale. Se manca la complessità ci saranno soltanto risposte spregevoli e che in ogni caso, illustrano molto di più di chi sono coloro che le producono rispetto al senso di quello che dicono.
Quello che è insostenibile è che queste persone che arrivano, rappresentano uno specchio e in quello specchio ci siamo noi: è la qualità della risposta che riusciamo a offrire a quello che sta accadendo. Ma la grandezza di una civiltà si vede davvero dall’eccellenza della risposta rispetto ad una situazione data. E l’Europa sta dando il peggio di sé.
La parola, la scrittura, sono i mezzi da impiegare in questa situazione? Su cosa bisogna fare affidamento?
Credo che le risposte sono date dalle persone che incontrano davvero i fatti. È un periodo storico in cui meno si sa, più forte è il giudizio. Più distanti si è dal luogo, più sradicata è una persona nelle sue convinzioni. Le cose cambiano quando incontri materialmente l’altro: di colpo crolla tutto, le impalcature, l’ideologia che hai, i pensieri. Sono tutte sovrastrutture. Esiste un numero congruo di persone che in silenzio lavora, opera, salva le vite e cerca di comprendere come si possono superare le difficoltà nel paese di origine. Poi c’è chi parla senza sapere, violentando sistematicamente le parole.
Mara Travella