Foto: Marta Panzeri, Chiasso Letteraria
Durante l’intervento al festival ha dichiarato “Io non sono uno scrittore”. Ciò nonostante ha sostenuto che la scrittura l’ha aiutata, soprattutto per rendere superfluo ciò che non è importante. Ha parlato poi dell’incontro, che può avvenire attraverso la scrittura. Cosa rappresentano per lei quindi la letteratura, e la narrazione?
Per cominciare, sia la letteratura che la narrazione sono una parte della mia vita, sin da quando ho imparato a leggere. Non mi sento uno “scrittore” per definizione in quanto ho sempre letto, ed ammirato, i veri autori di letteratura. A mio parere bisogna avvicinare il termine “scrittore” soltanto a chi veramente scrive letteratura. Non si tratta di falsa modestia, mi piacerebbe potermi definire così. Però penso di trovarmi ancora in un fase di apprendimento, in cui sto imparando ad essere uno scrittore.
Ho comunque pubblicato due libri, e anche se non penso di essere davvero parte del mondo della letteratura, ho provato ad entrarci in punta di piedi. E quest’esperienza mi ha dato la possibilità d’incontrare altri racconti. Come sostenuto da Enrico Bianda, giornalista che mi ha intervistato durante l’incontro al festival, dopo la pubblicazione di Zigulì sono usciti tanti libri sulla disabilità scritti principalmente da padri. Non penso di aver aperto un filone letterario, molto probabilmente è successo tutto in maniera casuale. Tuttavia negli ultimi anni questi racconti sono stati pubblicati. Ovviamente queste storie esistevano anche prima, per questo non penso sia merito mio. Però in questo momento registro che il mio racconto sta incrociando altri racconti. Questo è importante per me, perché significa continuare a parlare del tema della disabilità.
Nel suo discorso ha condannato il linguaggio cosiddetto “politicamente corretto”, che ho sostenuto essere vuoto e privo di significato. Tuttavia questo è il linguaggio che nella vita di tutti i giorni, nelle comunità e nella società, viene utilizzato verso i portatori di handicap e soprattutto verso le loro famiglie. In un altro momento del discorso ha sostenuto che bisogna trovare un codice di condotta e linguaggio, riempiendolo di significato, per poter comunicare. Che cosa dovrebbe cambiare, e come, per permettere alla società di relazionarsi con i portatori di handicap? È legato forse al suo concetto di “incontro”?
Mi piacerebbe poter rispondere, ma purtroppo non ho una risposta, e non penso sarò io a cambiare il mondo. È difficile. Tuttavia se continuiamo ad occuparci esclusivamente del linguaggio, senza preoccuparci però delle persone, non cambierà nulla. Attraverso il linguaggio può cambiare il modo di autorappresentarci e di raccontarci come comunità e contesto sociale. Malgrado ciò, non è tanto nel linguaggio quanto nei fatti che bisogna trovare un punto di svolta.
Chiamare una persona “handicappata” o “diversamente abile”, dal mio punto di vista, non cambia nulla se non viene attribuito un significato al termine specifico. Non è usando il termine “diversamente abili” e cercando di essere meno offensivi che cambierà qualcosa; si continua in effetti a non fare nulla. In modo un po’ provocatorio, preferisco sostenere che mio figlio è “handicappato”, se a questa dichiarazione segue un atto concreto, qualcosa che possa dare una risposta alle sue esigenze.
In questo contesto la questione del linguaggio diventa quasi superflua. Il racconto è soltanto uno strumento, che aiuta a mostrare queste esigenze. Se fosse un racconto isolato, nessuno mi darebbe retta. Ma nel momento in cui nasce un coro, un insieme di racconti, magari aumenteranno le probabilità che un incontro possa realizzarsi. Quando questo accadrà, la questione terminologica sarà in secondo piano, perché si entrerà in relazione con una persona, che ha un nome e un cognome. Da questo rapporto poi possono nascere altre forme comunicative, disinteressandosi del linguaggio, e soprattutto del linguaggio richiesto da chi sta intorno. Bisogna però fare lo sforzo per far sì che l’incontro avvenga, altrimenti non ci saranno cambiamenti.
Vorrei farle una domanda riguardo al modo in cui ha presentato i suoi libri, durante il suo intervento al festival, dato che ha inserito nel discorso moltissime battute, rendendo l’evento addirittura divertente nonostante la difficoltà del tema trattato. Volevo chiederle quindi che ruolo hanno avuto, e hanno, la comicità e la parolacce, che ha menzionato nel suo discorso, nel linguaggio e nel suo lavoro, forse collegando il tutto all’irrazionalità a cui lei è esposto quotidianamente?
Sentire di essere riuscito a tenere un discorso divertente durante l’incontro, per me è un grandissimo complimento. Vorrei che il pubblico si divertisse, e che uscisse ridendo dopo interventi simili. A me piace ridere, e mi piace provare a fare ridere le persone .
C’è tuttavia un elemento più serio nel mio discorso. A mio parere qualunque tema può essere raccontato in maniera divertente, e trasmettere un messaggio in questo modo è probabilmente la maniera più efficace per trasmetterlo davvero. Il pubblico si stufa ad ascoltare un discorso serio e noioso, senza un tentativo di comicità. Se invece si riesce a far ridere, il messaggio passa, e rimane nella mente delle persone.
Inoltre, a mio parere personale, ritengo che l’ironia sia il punto più alto dell’amore e di una relazione intima tra due amanti. Il fatto di potersi prendere in giro, permette alla coppia di non spezzarsi. Il mio tentativo di essere sempre ironico e di far ridere chi mi sta intorno è anche una richiesta di complicità, che avviene principalmente attraverso la risata.
Intervista di: Manuela S. Fulga