Foto: Omar Cartulano, Chiasso Letteraria
Durante l’intervento ha spiegato la sua visione, che ha definito “rivoluzionaria”, sulla migrazione. Nel corso della sua vita ha fatto la scelta, un po’ personale e un po’ professionale, di diventare un giornalista inviato. Aveva già questa visione, quando ha preso questa decisione? Cosa l’ha spinta a intraprendere questa carriera, con i pericoli e le esperienze complicate che ne sono conseguite?
Le dirò la verità, io adoro raccontare gli uomini. In questo contesto, bisogna decidere quali sono gli uomini che abbiamo il dovere di raccontare. Gli uomini che io voglio e cerco di raccontare sono quelli che non gridano, non urlano e nè tirano pietre. Sono in silenzio.
Camus ha scritto: “La cultura è il grido dell’uomo contro il dolore”. Il giornalismo dovrebbe essere anche questo, il mio giornalismo almeno cerca di esserlo – il grido dell’uomo contro il dolore. Per fare giornalismo quindi si può soltanto andare in luoghi dove l’uomo soffre, raccontando e condividendo la sua sofferenza.
Non accetterei mai di andare a raccontare le elezioni degli Stati Uniti, che per quanto importanti a me non interessano. Nemmeno la riunione del Consiglio Europeo riguardo a importanti decisioni economiche, a me non importa. È una questione di scelta. Non sostengo che questi avvenimenti non siano importanti, spesso sono fondamentali per coloro che si trovano nel dolore, per attenuarlo o aumentarlo. Però non mi interessano. I miei interlocutori sono le persone che soffrono.
Punto di vista che si addice al tema di quest’edizione del festival, la “Seconda Classe”
Nei posti che ho visitato io, la prima classe non esiste nemmeno. E probabilmente non si può nemmeno classificare una seconda classe, forse una terza.
Nella mia seconda domanda volevo chiederle il suo punto di vista riguardo al collegamento migrazione-integrazione; e soprattutto fra disperazione-migrazione-integrazione?
Le dirò una cosa scioccante: secondo me per i migranti l’integrazione è un rischio. Noi vogliamo integrarli. Ma il tesoro che i migranti possono portarci è proprio la loro mancanza d’integrazione. Noi vogliamo farli diventare come noi, ma per i migranti quest’omologazione è un rischio, addirittura un rischio.
Non voglio dire che il migrante debba essere un violento, che rifiuta la nostra società. Piuttosto sostengo che debba restare sé stesso, in quanto migrante. Non eritreo, tunisino, magrebino: migrante. Perché io parto dall’idea che i migranti non sono più quello che erano prima della partenza. Non è la loro precedente identità, ma il loro essere migranti ad essere il grande tesoro che ci portano. Se li corrompiamo per farli diventare come noi, con i nostri vizi e virtù, il fenomeno non servirà a niente. Per questo parlo di carattere “rivoluzionario”. Spezzare, rompere, far crollare, abbattere per poter ricostruire.
Come pensa si possa cambiare l’opinione pubblica, che spesso erroneamente collega il fenomeno della migrazione al fondamentalismo islamico, avvicinandola piuttosto all’empatia di cui lei ha parlato durante l’incontro, e soprattutto alla comprensione del coraggio di queste persone che decidono di affrontare la migrazione?
L’unico modo è cominciare a descriverli per quello che sono, e non per quello che immaginiamo siano. Dovremmo comprendere il loro viaggio, questo sarebbe un primo modo per capire. Non dobbiamo presentarli semplicemente come un’orda di persone che vengono qui per arricchirsi. Non è legittimo. È gente che scappa per sopravvivere, per sfuggire a condizioni tremende. Scappano da un’immobilità economica, ma anche economica, per cercare “l’altro mondo”.
In Svizzera non molti anni fa sono arrivati decine di migliaia di miei connazionali, italiani. Quelli che cos’erano, se non migranti? E sicuramente non hanno fatto saltare in aria la Svizzera, e sono cambiati anche loro. Questa è la migrazione.
Guardando alla situazione attuale e alle reazioni che la migrazione ha scaturito in Europa, e basandosi sulle sue esperienze vissute durante i suoi viaggi, cosa si aspetta dal futuro?
Io sono estremamente pessimista. Secondo me siamo entrati in un’epoca simile alla guerra dei trent’anni nel periodo dell’Europa barocca, di totale conflittualità. Un’epoca in cui la guerra alimenta la guerra, e va avanti per decenni, in luoghi diversi e per ragioni diverse. Un’epoca che coloro che la vivono, volgendosi indietro alla fine, avranno l’impressione di essere vissuti in un periodo permanente di conflitto.
Questo nonostante il mutamento del carattere migratorio, che lei ha sostenuto durante l’intervento?
Sì, e c’è il rischio che la migrazione diventi diversa in senso violento. Il mio non è un giudizio morale: è un cambiamento, un cambiamento rivoluzionario.
Intervista di Manuela S. Fulga