Dell’incontro e dello scambio avuto con Gabriela Adameșteanu e il suo traduttore Roberto Merlo mi rimarrà soprattutto una cosa. Il multiformità che può avere una lingua (in questo caso il rumeno) e la multiformità che chi parla più di una lingua porta dentro di sé.
Forse è il caso di spenderci qualche parola di più.
Credo che la vivacità di una lingua si misuri con la capacità di quella lingua di generare gerghi sempre nuovi. Di aggiungere parole e colori man mano che il tempo passa. Una lingua veramente viva è quella che sa trasformarsi, prendere in prestito parole da altre lingue, fagocitarle, risputarle fuori cambiate; quella che fa convivere più generazioni all’interno di essa, come la società stessa e specchio di quella.
Ogni esperienza all’estero fa si che la tua personale lingua cambi un po’. Come diceva Kader Abdolah sabato, l’esilio cambia il tuo modo di pensare. E se cambia il modo che abbiamo di pensare, cambia inevitabilmente la lingua che poi usiamo per esprimere i nostri pensieri.
Il ruolo della letteratura
Ma qual è il ruolo della letteratura in tutto questo, la letteratura che di lingue — più che di parole — è fatta? Credo che la letteratura dovrebbe essere al contempo testimonianza di questo processo e motore di spinta. La letterautra può fissare una lingua a un tempo t, un luogo l, in una comunità c. Ma può anche spingerla verso una nuova generazione, può spingerla ad accettare nuovi modi di utilizzare le solite parole, e poi aggiungerne nuovi modi di combinarle.
In qualche modo trovo sia inevitabile che questo accada. Ma credo soprattutto che sia da evitare il contrario. Una lingua in cui non si susseguono nuove generazioni di parole e di frasi, una dopo l’altra, è una lingua che prima o poi si vede vecchia davanti allo specchio della società. Ed è poi difficile capire se sia lo specchio a dare un’immagine sbagliata, o se è la società stessa ad essere invecchiata insieme alla lingua.
La buona notizia è che sto facendo una fatica pazzesca a non scrivere come scriverei nel mio 2089. L’italiano sopravviverà. Che si metta il cuore in pace chi nell’Europa del vostro futuro vede spazio solo per l’inglese.
Lingue ed Europa
E qui parte un’altra riflessione, comunque legata a questa. Se ne è parlato un po’ alla cena armena di sabato, con il traduttore di Gabriela Adameșteanu: Roberto Merlo.
Quanto poco ci vorrebbe per capirsi fra persone che parlano lingue diverse, se a scuola si imparasse non il tedesco, il francese, l’inglese o il rumeno, ma si imparasse invece ad ascoltare e a capire le lingue straniere in generale?
Quando sono nato, nel 2048, per fortuna le cose saranno già parecchio cambiate rispetto a questo vostro 2013. Un po’ in tutta Europa si sarà cominciato ad abituare i bambini ad ascoltare suoni, storie e discorsi in tutte le lingue dell’Unione. Nel 2089 ognuno parla la propria lingua, e tutti lo capiscono senza bisogno di traduzioni.
Non è forse bellissimo potersi esprimere nella propria “lingua del cuore” — come si chiama la lingua madre in arbëreshë, come ci ha spiegato Carmine Abate sabato. Non è forse ancora più bello potersi esprime nella propria lingua madre ed essere capiti da tutti?
E tutto questo, senza nemmeno bisogno di ricorrere al Babel Fish, il traduttore biologico immaginato da Douglas Adams.