A Fabio Pusterla danno carta bianca ogni anno.
Così mi avevano detto in molti, e dopo aver assistito alla sua attività ne ho capito il motivo.
Quest’anno sul palco insieme a lui c’erano altri tre poeti: Edoardo Zuccato, Fabio Franzin, e Franca Grisoni.
Tutti e tre hanno letto alcuni dei versi tratti dalle loro più recenti opere, e ognuno a modo suo, hanno comunicato agli ascoltatori sensazioni sullo scorrere del tempo, il mondo operaio e legate alla quotidiantà della natura.
Nonostante i diversi stili che li rendono particolari, hanno una caratteristica in comune: scrivono in dialetto.
Ero piuttosto sorpresa dalla scelta di Fabio, anche perché in un primo momento non mi era chiaro il collegamento con il tema principale proposto quest’anno a Chiasso letteraria dell’esilio, così una volta terminata l’attività ho colto l’occasione per fargli un paio di domande.
Che prospettive future pensi che ci siano per il dialetto e per la poesia dialettale?
Considerando che più di un secolo fa alcuni studiosi del dialetto ne avevano diagnosticato l’imminente morte, tutt’oggi persiste nonostante i cambiamenti. Naturalmente la sua portata è diminuita, e lo vedo anche nel liceo di Lugano in cui insegno, dove sono relativamente pochi gli studenti che lo parlano. Mentre se ci spostassimo verso Bellinzona o Locarno sarebbe già diverso. Sebbene in alcune zone sia più presente che in altre, per il momento non mi pare un moribondo.
Per quanto riguarda la poesia dialettale, mi sembra che stia dando prova di grande resistenza grazie anche alle sue radici così ben salde soprattutto in territorio italiano, e credo che sia un serbatoio di vivacità letteraria ancora lontano dall’esaurirsi.
Parlando d’esilio, le persone si spostano molto al giorno d’oggi, e il Ticino è in questi anni più una terra d’arrivo che non di partenza. Di fronte a ciò come si rapportano esuli e dialetto?
Il dialetto può essere lingua di unione, ma purtroppo anche di divisione. Mi è capitato di vederlo usare come un’arma di esclusione di fronte a persone che non lo capivano perché straniere. Vero anche che chi arriva oggigiorno in Ticino come esule, in cerca di una vita migliore impara prima l’italiano per potersi integrare più facilmente, ed eventualmente in un secondo tempo il dialetto.
Franca Grisoni prima, parlando delle esperienze personali di ciascuno di noi, ha detto che la lingua dell’altro è sempre diversa. Secondo te in che modo la poesia può appianare queste differenze?
Scrivere una poesia, non vuol dire unicamente dare sfogo ai propri sentimenti, ma è un modo per uscire da se stessi e rendere quelle sensazioni comprensibili anche agli altri. Se leggo una buona poesia, che mi piace, allora ciò di cui parla varrà anche per me, e diventa un linguaggio quasi universale e collettivo. In questo modo ci aiuta a capire il linguaggio dell’altro.
Grazie a Fabio per questa averci invitato con questa attività a riflettere sull’importanza dei dettagli, minuziosamente curati nella poesia, e per averci proposto nuovi spunti di lettura, talvolta meno immediati.